Giorno del Ricordo: il bisogno di un progetto incisivo…per tutti

di Rosanna Turcinovich Giuricin

Quasi in un sogno, in questo 2021 di zone gialle, arancione e rosse, scorrono immagini al rallentatore di un 10 Febbraio vissuto negli anni. Come nel 2003, quando non era ancora legge, ma aveva visto i parlamentari di quasi tutto l’arco costituzionale riuniti al Quartiere giuliano-dalmata di Roma per consegnare alla storia un gesto forte: riconoscere il colpevole silenzio della Patria per tanti, troppi, decenni, sulle vicende del suo confine orientale. L’anno dopo veniva votata con la medesima partecipazione la Legge del Ricordo, finalmente ossigeno per il nostro respiro sempre troppo corto. Poi ci furono le parole catartiche dei Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella…le relazioni di Lucio Toth al Quirinale in un crescendo armonico che avrebbe portato agli incontri dei Tre presidenti a Trieste e poi al viaggio di Giorgio Napolitano a Pola. Il Capo di Stato entrava nell’Arena in un tripudio di bandiere e gli italiani di tutta l’Istria e Fiume scandivano all’unisono: “presidente, presidente”. Al suo fianco un sorridente Ivo Josipovic, presidente della Croazia, persuaso, convinto che fosse giusta quell’apertura senza precedenti.
Ma la politica non bastava e allora arrivò a commuoverci e consolarci un grande Simone Cristicchi, eroe di questo nostro tempo ingarbugliato e strano. Nell’ottobre del 2013 a Trieste avevano annunciato fischi e contestazioni alla prima della messa in scena di “Magazzino 18”. Il pubblico che gremiva il Teatro Rossetti si sciolse in un lungo applauso, si strinse attorno a quell’idea di spettacolo diverso, l’arte del teatro vero, senza sbavature, senza inutile retorica, dritto alla meta e fummo in tanti a trovarci con gli occhi umidi e le mani che, come la testa e il cuore, non smettevano di ringraziare applaudendo ancora ed ancora.
Quanta condivisione dopo tanta divisione!
Ora, a luci spente, nella eccezionale banalità del quotidiano, lentamente, senza ulteriori scossoni, è stato raggiunto un grande risultato a quasi vent’anni dell’istituzione della legge sul Giorno del Ricordo: l’idea, la conoscenza della nostra vicenda, si è fatta strada nella coscienza degli Italiani, la nazione sa che il Giorno del Ricordo parla di Foibe ed Esodo. Ora è una storia scritta sulle vie delle città, sui nomi delle piazze, ai piedi dei monumenti che si sono moltiplicati in modo esponenziale. Si espongono date e frasi se non si può ottenere altro riconoscimento. Le iniziative sorgono spontanee, non c’è bisogno di grandi spinte, parlare di Esodo e Foibe è una consegna entrata nel calendario ma è un calendario che si ripete, non evolve, spesso segna il passo, si accontenta di ciò “che passa il convento”, non crea, non propone l’impossibile, non guarda oltre, attende segnali da altrove.
Per esempio dalla cerimonia del 10 Febbraio a Roma al Quirinale, al Campidoglio, al Senato o laddove di anno in anno si decide di trasferire l’incontro “centrale” insieme a quello di Basovizza a Trieste. Rimane comunque importante l’incontro delle associazioni degli Esuli con le massime cariche dello Stato nella speranza di frasi epiche, di un segnale di svolta, di veder camminare le parole e parlare i passi. Sin da quei primi tentativi incisivi con gli interventi di Lucio Toth, così come succedeva in Istria a Fiume ogniqualvolta prendeva la parola in occasioni ufficiali lo storico presidente della Comunità nazionale italiana, Antonio Borme. Tutti e due, e non per caso, separatamente, chiamavano la gente che rappresentavano “mio piccolo popolo”.
Senza di loro, andati avanti, quest’anno è stato fatto un ulteriore passo verso la cancellazione dei torti subìti. Piegati ma non vinti dalla pandemia, i vari rappresentanti di “qua e di là” come recitava una divisone ormai superata che indicava Esuli e Rimasti, s’incontreranno on line, Tremul/Codarin, Moscarda/Bellaspiga, per ribadire la volontà di procedere insieme, stringere dei patti, proporre progetti.
Un’evoluzione lenta, costruita sulle parole, sulle intenzioni, che la politica riconosce così come la società civile e porta conforto ad un mondo di esuli ancora sfiniti dal dolore che non si placa e di un mondo di rimasti che rischiano di morire per asfissia, modernità, nuova economia. Lo leggiamo nei loro racconti, nell’epilogo di progetti implementati per decenni e rimasti orfani, nell’attesa, sempre delusa, che l’Italia riconosca i torti subìti dagli esuli attraverso gesti forti, per i rimasti una continua erosione dei diritti acquisiti. Se pensiamo che in Istria non ci sono ancora monumenti sulle foibe, che ammettano la tragedia e leniscano il dolore, è facile comprendere la rabbia di tanta gente e la loro incapacità di un approccio sereno e distaccato. A tutto ciò va aggiunto un persistente negazionismo che scatena, per contro, reazioni senza ritegno, volano parole forti, si ripresentano rigurgiti di stampo nazionalista, tesi pesanti: altro non sono che il frutto dell’insopportabile visione della mancanza di rispetto nei confronti di una tragedia il cui fardello gli esuli sono convinti di portare da soli. E’ un cane che si morde la coda, rabbia crea rabbia, dolore suscita dolore, e il resto viene da se. Spesso volano reciproche accuse per le cose non fatte o non dette, dimenticando lo slancio dei giganti: Barbi, Miglia, Depangher, Tomizza, Spadaro, Missoni, Bettiza, Molinari, e tanti politici, artisti, gente semplice ma di buona volontà…
Il piccolo popolo è fatto di tante persone, sparse ovunque, ma ancora vive e vivaci che in questo mese di febbraio, dal 2004 hanno avuto modo di ritrovarsi, di testimoniare, di far parlare di sé, di entrare nelle scuole, farsi ricevere o accompagnare dai sindaci, coinvolgendo storici ed intellettuali impegnati, qui e dappertutto.
La pandemia, che ha sconvolto ogni cosa, non poteva che rendere più difficile il tutto. Deposizioni di corone con la partecipazione di poche persone, cerimonie ridotte all’osso, però tante manifestazioni sui social anche solo per ribadire una presenza.
Il prossimo anno tutto potrebbe essere diverso, questa è la speranza e forse questo stop alla frenesia presenzialista degli anni scorsi, farà riflettere, per realizzare meno cose ma di maggiore qualità. Forse un grande progetto come auspicavano i “padri” fondatori dell’associazionismo. Il Giorno del Ricordo dovrebbe svolgersi anche nel loro nome il che ci farebbe sentire più completi, meno disconnessi col passato e più connessi con chi la pensa allo stesso modo almeno su una cosa: la storia per noi delle terre adriatico-orientali è stata inclemente, lo è stato anche il destino ma ci ha permesso di andare nel mondo e diventare un popolo sparso che può fare rete e procedere compattamente concordando sui principi fondamentali tracciati dagli uomini illuminati e di buona volontà, “di qua e di là”.
In una realtà fatta a pezzi dall’emergenza ci accorgiamo che l’incapacità di sognare in grande, di osare, è stata fino ad ora solo l’espressione della paura di non sapere tracciare una linea precisa di evoluzione condivisa, ripiegando per tanto su tentativi solitari da realizzare in ordine sparso. Se qualcosa deve cambiare, questo è il momento giusto, nonostante tutto. C’è ancora spazio per i sogni sulla nostra linea temporale.

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