Il 10 febbraio, Giorno del Ricordo, Maurizio Tremul, presidente dell'Unione Italiana, ha rilasciato questa intervista ad un giornalista dell'East Journal
di Pietro Aleotti
Si celebra oggi il Giorno del Ricordo, celebrazione istituita in Italia nel 2004 per commemorare le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La ricostruzione storica di quel periodo e di quei fatti è tra le più controverse e divisive della storia d’Italia del secolo scorso. Tra strumentalizzazioni, distorsioni e narrazioni artatamente parziali, l’analisi di quel periodo esce, quasi sempre, dal contesto storico per invadere la sfera della politica – molto spesso nel senso meno nobile del termine.
Aprire quel capitolo significa, tutt’oggi, trovarsi nel bel mezzo di uno scontro tra opposte fazioni: uno scontro che si esplicita, di norma in modo sterile, nella pura contrapposizione ideologica, buoni/cattivi, comunisti/fascisti e via dicendo. Lo studio storico, rigoroso e per quanto possibile oggettivo, resta sullo sfondo, quasi fosse un dettaglio secondario, persino trascurabile, soverchiato dalla necessità di far prevalere la propria presunta verità di parte, sovente omissiva.
Il 10 febbraio, dunque, non è un giorno come gli altri, ma è addirittura “un passaggio cruciale della nostra storia recente”. A definirlo così è Maurizio Tremul, italiano di Slovenia (nato e cresciuto a Capodistria) e presidente dell’Unione Italiana (UI), l’organizzazione che rappresenta la comunità nazionale italiana (CNI) che vive in Slovenia e Croazia – una comunità che conta oggi circa 30.000 persone che risiedono soprattutto sulla costa slovena, in Istria e nelle città di Fiume e Zara. Lo abbiamo intervistato per East Journal per dare voce agli italiani che hanno vissuto e che ancora vivono sulla sponda opposta dell’Adriatico: una voce importante, spesso trascurata, per capire meglio le vicende a cui rimanda il Giorno del Ricordo.
Perché il 10 febbraio è una data così importante per gli italiani di Slovenia e Croazia?
Perché è alla base della semplificazione etnica attuata sul nostro territorio che ha trasformato la nostra comunità da maggioritaria a minoranza esigua. L’esodo della maggioranza della popolazione italiana da questi territori ne ha cambiato radicalmente la composizione etnica, culturale, linguistica e identitaria. Ha lacerato un popolo, ha diviso famiglie portando dolore, disperazione e sofferenza. Sono iniziati, allora, dei percorsi molto diversi, tra chi scelse la dolorosa strada dell’esilio in Italia e chi la strada dell’esilio nella propria patria. Il 10 febbraio ci ricorda ogni anno le sofferenze e le violenze che abbiamo subito come italiani dal regime comunista dopo il 10 settembre del 1943 e dopo la fine della guerra, ma ci ricorda anche le sofferenze e le violenze che noi italiani abbiamo arrecato ai croati e agli sloveni, durante il fascismo.
In Italia questa data è vissuta in modo divisivo, una contrapposizione che si sposta dalla storia alla politica, perché secondo lei?
E’ sbagliato ricordare quei fatti in maniera divisiva. Non possiamo negare la verità: i misfatti e i terribili crimini del nazifascismo prima e poi del comunismo che, pur avendo contribuito a liberare l’Europa da un regime disumano, ne ha poi insanguinata una parte rilevante soggiogandola, diventando parimenti disumano. Serve conoscenza, informazione, istruzione, cultura, dialogo, rispetto reciproco. L’eventuale narrazione condivisa dei fatti presuppone il riconoscimento dei torti fatti e di quelli subiti, un processo che non può essere unilaterale. Noi, Unione Italiana, italiani di Croazia e Slovenia, questo percorso lo abbiamo fatto.
Cosa resta di non detto, di non riconosciuto a livello storico sulle foibe e sull’esodo?
Credo resti ancora molto da dire soprattutto a livello di ricerca storica, senza preconcetti o tesi precostituite, ma con obiettività e oggettività.
Dopo la fine della guerra, quali sono le ragioni che hanno spinto molti italiani a rimanere in Jugoslavia?
La stragrande maggioranza di chi rimase lo ha fatto perché non se la sentiva di lasciare tutto o perché, come è il caso della mia famiglia e di molte altre che conosco, gli anziani non volevano andarsene, abbandonare la loro terra e i loro morti. E’ stato un bene, è grazie a loro che oggi si parla ancora italiano in queste terre, l’Istroveneto e anche l’istrioto sono lingue ancora vive e vitali. Si produce cultura italiana, si perpetua l’identità italiana. Solo una piccola parte della minoranza rimase per scelta ideologica, altri, ancora meno, lo fecero per convenienza.
Quale era il clima intorno agli italiani in Jugoslavia nell’immediato dopoguerra e come è cambiato nel tempo?
Erano potenziali nemici in casa, sostanzialmente fascisti, perché fascista era sinonimo di italiano. Negli anni, lentamente, a costo di un prezzo altissimo in termini di assimilazione, il clima è cambiato fino a far quasi scomparire, al giorno d’oggi, queste percezioni.
Oggi si può dire che la comunità italiana sia integrata nelle società di Slovenia e Croazia?
La nostra comunità ha una percentuale altissima di matrimoni misti, non soffre di nazionalismi, è aperta e cooperativa con le altre componenti storiche del nostro territorio, persegue il dialogo interculturale, i valori della convivenza. È parte integrante di questo spazio antropico dove concorre a produrre cultura, civiltà, ricchezza economica e sociale. Rispetta gli altri, le loro tradizioni, la loro storia, le loro aspirazioni. Crede fermamente nei valori europei della democrazia, della solidarietà, della cittadinanza attiva, dell’integrazione che non significa assimilazione. Chiede, esige, il rispetto della propria storia, delle proprie origini, della propria lingua, cultura e identità che hanno forgiato in maniera incancellabile e profonda questa regione. Esige il rispetto e la piena applicazione dei diritti che gli ordinamenti giuridico-costituzionali sloveno e croato le riconoscono, che gli accordi e le intese internazionali e i principali documenti sui diritti minoritari europei sanciscono, senza se e senza ma. Certamente in Slovenia alla CNI, a cui sono assicurati importanti diritti, non viene riconosciuto quel ruolo politico attivo nella società che invece viene riconosciuto agli italiani in Croazia, in special modo in Istria, dove, a livello di autonomie locali e regionale istriana, ma anche a livello nazionale, ricoprono ruoli politici e istituzionali di primo piano.
Nessun pericolo di derive nazionaliste, dunque?
Nient’affatto. Noi siamo orgogliosi di rappresentare l’italianità di queste terre nel senso più aperto e rispettoso possibile, per nulla esclusivo ed escludente, privo di vene nazionalistiche, ma con l’orgoglio di essere consapevoli di appartenere a una grande cultura e civiltà. Siamo fieri di aver tenuto alto il nome dell’Italia di aver costruito ponti, in primis con la Comunità Nazionale Slovena in Italia, come pure con gli esuli in Italia, amicizia, fraternità, solidarietà, valori e pace
E’ mancata nei giorni scorsi a Fiume, la giornalista Rosy Gasparini, per una vita colonna portante della Voce del Popolo. Sentiamo la notizia su TV Capodistria…le parole rimangono sospese nella nostra mente per un lungo istante. No, non è possibile, la nostra Rosy, l’anima delle battaglie per la storia di Fiume, le sue piazze e le sue case. Voce che spesso si staccava dal coro, non prescindendo dalla sua carica di alta umanità e di spirito libero. “Se go de dirtele, te le digo in muso!”.
Per molti anni a capo della Fiumana del quotidiano italiano, un giornale nel giornale. “Non stemo misciar le robe, Fiume xe Fiume”…lo diceva con falsa serietà, con quel lampo deciso e sornione negli occhi di un verde bellissimo che hanno fatto innamorare tanta gente di questa donna eccezionale. Un monumento per la nostra Comunità che come tutti i monumenti infiamma una gran parte di persone, le altre le lascia indifferenti per ignoranza, per mancanza di una coscienza nazionale così come lei la concepiva, combattiva e sempre presente.
Fu lei a pronunciare un giorno parole profonde e pesanti come pietre, parafrasando un’immagine descritta da Santarcangeli nel volume “La città dell’aquila decapitata”…sortì: “Se i ne metesi noi tutti italiani de qua, insieme nello stadio de Cantrida, e i ne fazesi fora tutti, prima o poi, qualche mona se ricordasi de essere italian e tutto riminciassi de novo”.
Grande Rosy ad aver capito la vocazione da Araba Fenice della nostra gente che, come la marea, arriva, succhia il sole dalla riva, e se ne torna nel mare grande, ma ritorna, tante e tante volte ancora, magari sperando di rimanere intrappolata tra le rocce, in una pozza che le possa concedere ancora un po’ di quiete e di cielo pulito dopo tante tempeste.
Rosy era il binomio perfetto con Agnese Superina, con loro e Roberto Palisca nel 2013 organizzammo a Fiume, Comunità degli Italiani e Associazione degli esuli insieme, il primo Incontro mondiale Sempre Fiumani, con anche la partecipazione della Fanfara dei Bersaglieri che aveva percorso correndo il Corso per arrivare con un boato senza fine nella sala delle feste della Comunità. Che momenti, quanto entusiasmo, quanta voglia di verità, di abbracci e lacrime perché siamo gente di sentimenti, sappiamo commuoverci. Anche gridare, arrabbiarci e fare pace.
Solo la falce della terribile Signora nera può toglierci il fiato ma non il ricordo che rimane e vive in chi continua ad agitarsi e lottare, magari in solitudine ma per tutti. Viva Rosy. Viva Fiume.
Rosanna Turcinovich Giuricin
Didascalia: Rosy Gasparini (a sinistra nella foto, con Rosanna Turcinovich e Fulvio Varljen durante la cerimonia nella Cripta di Cosala.
di Rosanna Turcinovich Giuricin
Quasi in un sogno, in questo 2021 di zone gialle, arancione e rosse, scorrono immagini al rallentatore di un 10 Febbraio vissuto negli anni. Come nel 2003, quando non era ancora legge, ma aveva visto i parlamentari di quasi tutto l’arco costituzionale riuniti al Quartiere giuliano-dalmata di Roma per consegnare alla storia un gesto forte: riconoscere il colpevole silenzio della Patria per tanti, troppi, decenni, sulle vicende del suo confine orientale. L’anno dopo veniva votata con la medesima partecipazione la Legge del Ricordo, finalmente ossigeno per il nostro respiro sempre troppo corto. Poi ci furono le parole catartiche dei Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella…le relazioni di Lucio Toth al Quirinale in un crescendo armonico che avrebbe portato agli incontri dei Tre presidenti a Trieste e poi al viaggio di Giorgio Napolitano a Pola. Il Capo di Stato entrava nell’Arena in un tripudio di bandiere e gli italiani di tutta l’Istria e Fiume scandivano all’unisono: “presidente, presidente”. Al suo fianco un sorridente Ivo Josipovic, presidente della Croazia, persuaso, convinto che fosse giusta quell’apertura senza precedenti.
Ma la politica non bastava e allora arrivò a commuoverci e consolarci un grande Simone Cristicchi, eroe di questo nostro tempo ingarbugliato e strano. Nell’ottobre del 2013 a Trieste avevano annunciato fischi e contestazioni alla prima della messa in scena di “Magazzino 18”. Il pubblico che gremiva il Teatro Rossetti si sciolse in un lungo applauso, si strinse attorno a quell’idea di spettacolo diverso, l’arte del teatro vero, senza sbavature, senza inutile retorica, dritto alla meta e fummo in tanti a trovarci con gli occhi umidi e le mani che, come la testa e il cuore, non smettevano di ringraziare applaudendo ancora ed ancora.
Quanta condivisione dopo tanta divisione!
Ora, a luci spente, nella eccezionale banalità del quotidiano, lentamente, senza ulteriori scossoni, è stato raggiunto un grande risultato a quasi vent’anni dell’istituzione della legge sul Giorno del Ricordo: l’idea, la conoscenza della nostra vicenda, si è fatta strada nella coscienza degli Italiani, la nazione sa che il Giorno del Ricordo parla di Foibe ed Esodo. Ora è una storia scritta sulle vie delle città, sui nomi delle piazze, ai piedi dei monumenti che si sono moltiplicati in modo esponenziale. Si espongono date e frasi se non si può ottenere altro riconoscimento. Le iniziative sorgono spontanee, non c’è bisogno di grandi spinte, parlare di Esodo e Foibe è una consegna entrata nel calendario ma è un calendario che si ripete, non evolve, spesso segna il passo, si accontenta di ciò “che passa il convento”, non crea, non propone l’impossibile, non guarda oltre, attende segnali da altrove.
Per esempio dalla cerimonia del 10 Febbraio a Roma al Quirinale, al Campidoglio, al Senato o laddove di anno in anno si decide di trasferire l’incontro “centrale” insieme a quello di Basovizza a Trieste. Rimane comunque importante l’incontro delle associazioni degli Esuli con le massime cariche dello Stato nella speranza di frasi epiche, di un segnale di svolta, di veder camminare le parole e parlare i passi. Sin da quei primi tentativi incisivi con gli interventi di Lucio Toth, così come succedeva in Istria a Fiume ogniqualvolta prendeva la parola in occasioni ufficiali lo storico presidente della Comunità nazionale italiana, Antonio Borme. Tutti e due, e non per caso, separatamente, chiamavano la gente che rappresentavano “mio piccolo popolo”.
Senza di loro, andati avanti, quest’anno è stato fatto un ulteriore passo verso la cancellazione dei torti subìti. Piegati ma non vinti dalla pandemia, i vari rappresentanti di “qua e di là” come recitava una divisone ormai superata che indicava Esuli e Rimasti, s’incontreranno on line, Tremul/Codarin, Moscarda/Bellaspiga, per ribadire la volontà di procedere insieme, stringere dei patti, proporre progetti.
Un’evoluzione lenta, costruita sulle parole, sulle intenzioni, che la politica riconosce così come la società civile e porta conforto ad un mondo di esuli ancora sfiniti dal dolore che non si placa e di un mondo di rimasti che rischiano di morire per asfissia, modernità, nuova economia. Lo leggiamo nei loro racconti, nell’epilogo di progetti implementati per decenni e rimasti orfani, nell’attesa, sempre delusa, che l’Italia riconosca i torti subìti dagli esuli attraverso gesti forti, per i rimasti una continua erosione dei diritti acquisiti. Se pensiamo che in Istria non ci sono ancora monumenti sulle foibe, che ammettano la tragedia e leniscano il dolore, è facile comprendere la rabbia di tanta gente e la loro incapacità di un approccio sereno e distaccato. A tutto ciò va aggiunto un persistente negazionismo che scatena, per contro, reazioni senza ritegno, volano parole forti, si ripresentano rigurgiti di stampo nazionalista, tesi pesanti: altro non sono che il frutto dell’insopportabile visione della mancanza di rispetto nei confronti di una tragedia il cui fardello gli esuli sono convinti di portare da soli. E’ un cane che si morde la coda, rabbia crea rabbia, dolore suscita dolore, e il resto viene da se. Spesso volano reciproche accuse per le cose non fatte o non dette, dimenticando lo slancio dei giganti: Barbi, Miglia, Depangher, Tomizza, Spadaro, Missoni, Bettiza, Molinari, e tanti politici, artisti, gente semplice ma di buona volontà…
Il piccolo popolo è fatto di tante persone, sparse ovunque, ma ancora vive e vivaci che in questo mese di febbraio, dal 2004 hanno avuto modo di ritrovarsi, di testimoniare, di far parlare di sé, di entrare nelle scuole, farsi ricevere o accompagnare dai sindaci, coinvolgendo storici ed intellettuali impegnati, qui e dappertutto.
La pandemia, che ha sconvolto ogni cosa, non poteva che rendere più difficile il tutto. Deposizioni di corone con la partecipazione di poche persone, cerimonie ridotte all’osso, però tante manifestazioni sui social anche solo per ribadire una presenza.
Il prossimo anno tutto potrebbe essere diverso, questa è la speranza e forse questo stop alla frenesia presenzialista degli anni scorsi, farà riflettere, per realizzare meno cose ma di maggiore qualità. Forse un grande progetto come auspicavano i “padri” fondatori dell’associazionismo. Il Giorno del Ricordo dovrebbe svolgersi anche nel loro nome il che ci farebbe sentire più completi, meno disconnessi col passato e più connessi con chi la pensa allo stesso modo almeno su una cosa: la storia per noi delle terre adriatico-orientali è stata inclemente, lo è stato anche il destino ma ci ha permesso di andare nel mondo e diventare un popolo sparso che può fare rete e procedere compattamente concordando sui principi fondamentali tracciati dagli uomini illuminati e di buona volontà, “di qua e di là”.
In una realtà fatta a pezzi dall’emergenza ci accorgiamo che l’incapacità di sognare in grande, di osare, è stata fino ad ora solo l’espressione della paura di non sapere tracciare una linea precisa di evoluzione condivisa, ripiegando per tanto su tentativi solitari da realizzare in ordine sparso. Se qualcosa deve cambiare, questo è il momento giusto, nonostante tutto. C’è ancora spazio per i sogni sulla nostra linea temporale.
In attesa di pubblicare la notizia sulla Voce di Fiume numero 1 del 2021, facciamo gli auguri per questo tramite alla neolaureata Silvia Chioggia e alla sua famiglia.
L’intervento del Presidente dell’AFIM, Franco Papetti, a Palazzo Madama, sala Nassirya
Si è svolta, martedì 28 luglio 2020, alle ore 11 presso la Sala Nassirya del Senato della Repubblica, una conferenza stampa promossa dalla Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, a seguito della visita del Presidente Sergio Mattarella e del Presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor alla Foiba di Basovizza il 13 luglio 2020.
Importante l’appello di Maurizio Gasparri il quale chiede che dopo la visita di Pahor “Conte riceva queste organizzazioni (Esuli) che rappresentano un pezzo di storia d’Italia troppo spesso dimenticata”. Presenti al Senato il Presidente della FederEsuli Antonio Ballarin, il Presidente dell’Associazione Fiumani Italiani nel mondo Franco Papetti, il Presidente dell’Associazione Italiani di Pola Tito Sidari e il Presidente di Coordinamento Adriatico Giuseppe de Vergottini. Tutti hanno riconosciuto il carattere storico, molto positivo, del 13 luglio. Tuttavia, sono convinti che quella stretta di mano, che ha aperto tutti i giornali italiani, sia un punto di partenza, e non di arrivo, per rilanciare la verità storica e il riconoscimento dei diritti di chi soffrì quelle enormi tragedie.
“Mi chiamo Franco Papetti -ha esordito il Presidente dell’AFIM - e rappresento l’associazione dei Fiumani Italiani nel Mondo. Fiume come voi sapete è stata la città che negli anni ’40 del Novecento, aveva 54.000 abitanti: se ne sono andati più del 90 per cento dei cittadini per le decisioni del dopoguerra. Gli esuli sono stati dai 38 ai 40.000, un’intera città che si è spostata. A Fiume però esiste una minoranza di italiani. I Fiumani hanno visto con particolare interesse ciò che è successo a Trieste, lo possiamo considerare un fatto storico, oltre l’aspetto empatico dell’evento, c’è anche l’aspetto politico, finalmente un presidente della Slovenia, una delle ex nazioni jugoslave, era presente alla Foiba di Basovizza. Per noi un evento oltremodo importante vedere i due presidenti mano nella mano che si inchinavano di fronte alla Foiba di Basovizza che ci ha permesso anche di superare certi aspetti che potevano essere anche non di secondaria importanza, tipo: il Narodni Dom è stato regalato o è stato restituito? Oppure i tre sloveni più un croato del Tigr ai quali è stato reso omaggio erano degli attentatori all’unità nazionale italiana o erano degli antifascisti. Ecco, queste considerazioni, secondo me, sono state superare dall’evento storico paragonabile a quello di Verdun quando a prendersi per mano furono Kohl e Mitterand per superare cento anni di scontri tra Germani e Francia.
Ora anche noi con la Slovenia abbiamo raggiunto un’intesa, un riconoscimento reciproco dei torti nostri e loro nel periodo della guerra con l’occupazione di Lubiana e nei quaranta giorni di Trieste di cui è esempio tragico la Foiba di Basovizza. A questo punto ci aspettiamo che ci sia un passo successivo, in questo caso con la Croazia per arrivare ad una riconciliazione in questo senso.
Dobbiamo dire che noi come Fiumani già siamo andati avanti: da oltre vent’anni abbiamo dei rapporti consolidati, sia con l’amministrazione del Comune di Fiume sia con la locale minoranza italiana con la quale lavoriamo assieme, con la quale cerchiamo di proteggere quella che è stata la nostra storia e devo dire che qualche risultato l’abbiamo ottenuto.
A Fiume è stato reinstallato sulla Torre civica il simbolo della Fiume storica, l’aquila bicipite; è stata reintrodotta la bandiera storica fiumana che ha rappresentato nei secoli l’autonomia fiumana; è stata dedicata a Riccardo Zanella una piazza a colui che fu il leader del movimento autonomo di Fiume, proprio davanti al Palazzo del Governo. Noi stiamo andando avanti, stiamo costruendo insieme un futuro perché vogliamo che la minoranza italiana di Fiume, composta da quattromila italiani di cittadinanza croata, riescano a resistere all’assimilazione. Questo nostro lavoro sta avendo dei grandi successi.
Ora veniamo a noi: credo sia il momento, vista anche l’importanza di questo incontro tra il Presidente Mattarella e il Presidente Pahor, che l’Italia chiuda le pendenze nei nostri confronti. Credo sia inaccettabile il fatto che noi ancora si discuta di rimborsi dei progetti del 2014, sono passati sei anni. E’ inaccettabile che non sia ancora chiuso il problema beni abbandonati. Ci si aspetta dallo Stato italiano una equa e definitiva conclusione della vicenda. Voglio ricordare che con i nostri beni sono stati pagati i danni di guerra di tutti gli italiani…e poi qualcuno mi dovrà spiegare perché i nostri beni sono stati valutati un decimo rispetta a quelli dei profughi libici. E’ doveroso venga portato a termine l’accordo Dini-Granic del 1996, per la protezione delle nostre minoranze, che prevedeva, tra l’altro, il diritto al bilinguismo anche in quelle zone, come Fiume, dove vive una minoranza italiana consistente. Non è accettabile che non sia stata consegnata la medaglia d’oro alla città di Zara che fu concessa dal Presidente Ciampi (e di cui ha parlato il prof. de Vergottini). Si tratta di un altro episodio da chiudere definitivamente.
Un’altra cosa che ci è dovuta, da parte della politica italiana, sono delle scuse ufficiali per come siamo stati trattati, buttati nei campi profughi al limite dell’umano, pensate già ancora nei primi anni Sessanta c’erano oltre seimila profughi in queste condizioni, in questi luoghi di prigionia e nessuno mai ci ha chiesto scusa né ci è stato spiegato perché siamo stati trattati in questo modo. Pensate addirittura che nel 1948 era stato chiesto ad ognuno di noi di depositare le impronte digitali perché eravamo sospettati di non so quali delitti.
Qualcosa è stato fatto effettivamente, col Giorno del Ricordo, ci è stata data la possibilità di farci conoscere. Anche se ciò che ci fa male è che gli italiani, avendo perso in sessant’anni questa conoscenza storica, chiamano Fiume col nome croato di Rijeka. Vado spesso nelle scuole a fare delle conferenze e mi accorgo dell’ignoranza che c’è sulla nostra storia, sento dire che noi abbiamo invaso l’Istria nel 1941 e cose del genere. Quindi, e mi avvio alla chiusura, noi vogliamo che lo stato italiano ci aiuti a far conoscere meglio e di più la nostra storia di bimillenaria presenza nelle terre adriatiche nord orientali. Come punto di partenza per far diventare la nostra storia, storia nazionale. Ed inoltre che il discorso del ritorno culturale che stiamo affrontando con la nostra minoranza ci dia la possibilità di ricostituire e ricompattare la comunità giuliano-dalmata. Il tutto attraverso una maggiore protezione degli italiani oggi cittadini sloveni e croati che manterranno anche nel futuro questa nostra dimensione fatta di tradizioni, lingua, cultura e tutto ciò che noi purtroppo abbiamo dovuto lasciare”.
Ho seguito con interesse le cerimonie sul Carso che a Trieste hanno preceduto l’incontro in Prefettura e al Narodni Dom restituito alla Comunità slovena nel nome di una pacificazione che procede per gesti simbolici, condivisione, sostegno. In quanto Fiumani comprendiamo perfettamente la necessità di sciogliere i nodi della storia e costruire nuove opportunità. Mentre scorrevano le immagini dei due presidenti, d’Italia Sergio Mattarella e di Slovenia Borut Pahor, che alla Foiba di Basovizza si tenevano mano nella mano e poi davanti al cippo dei fucilati, sono tanti i pensieri che avrei voluto esprimere in una ipotetica assemblea di noi tutti esuli e italiani rimasti: partendo dal desiderio di una ricomposizione che non sia solo formale, che non si fermi alle enunciazioni, che non scivoli via dopo l’emozione dei primi incontri.
L’odio – come abbiamo sentito specificare – è un sentimento facile e comodo, basta lasciare fluire rabbie e rancori senza alcun freno, l’amicizia invece ha bisogno di impegno, di lavoro, di nuovi apporti, di essere nutrita ed implementata, costa fatica pur essendo un piacere, coinvolge la testa e la pancia, va continuamente ricondotta nei giusti ranghi.
Guardando le immagini delle cerimonie ho pensato a quanto significativo sia questo momento dal quale giunge un segnale immenso: ora è possibile che un presidente si inchini davanti ad un monumento che ricorda foibe ed esodo, ora è possibile che si possa ragionare delle grandi tragedie del Novecento da una diversa prospettiva, ognuno fedele alla propria storia ma rispettoso di quella degli altri. Dobbiamo imparare a darci la mano. Non è facile ma è possibile.
Quando abbiamo deciso di aprire l’Ufficio di Presidenza dell’AFIM ai nostri concittadini fiumani, in particolare alla Comunità degli Italiani che ha sede a Palazzo Modello, non è stato solo un atto formale, alle nostre riunioni si parla dei nostri e dei loro problemi, senza ingerenza alcuna si procede a risolvere le questioni che ci assillano, si tracciano nuove vie di collaborazione.
Ecco perché oggi, di fronte a quelle immagini ed a quelle dichiarazioni, ho sentito riconfermate le nostre posizioni di una trasversalità immediata e sincera.
Ho apprezzato la citazione da Antigone: “sono nata non per odiare, ma per amare” che ben delinea la nostra scelta che oggi più che mai diventa impegno per il futuro, lontano dal do ut des dalla politica ma convinti a costruire traendo forza dal nostro entusiasmo per le comuni mete da raggiungere.
Allo Stato chiederemo con forza una legge che ci tuteli e che ci permetta di disegnare nuovi percorsi, perché la convinzione sulle mete da raggiungere sarà la forza in grado di guidarci.
Franco Papetti
Presidente Associazione Fiumani Italiani nel Mondo
Riprende la sua attività la Sezione di Fiume del CAI con una nuova proposta d'incontro. A fine agosto e primi giorni di settembre è in programma un'escursione interessante. Per chi volesse partecipare trova nel documento allegato tutto il programma e le note per l'adesione. La tradizione alpinistica a Fiume vanta una lunga tradizione che ha il Monte Maggiore (nella foto) come riferimento storico-naturalistico.