BREVE STORIA DI FIUME
di Giovanni Stelli
INTRODUZIONE
L’Adriatico, penetrando profondamente tra la penisola italiana e la penisola balcanica e avvicinandosi ai passi delle Alpi che conducono al Danubio, forma alla sua estremità nord-orientale il golfo del Quarnaro, Quarnero o Carnaro (in croato Kvarner), di cui Fiume costituisce la città e il porto più importante. Nel IX canto dell’Inferno Dante evidenzia la posizione del Carnaro come confine dell’Italia, che egli considera una “nazione” all’interno dell’Impero:
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’ a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna […]
La città di Fiume si distende lungo il mare. Un corso d’acqua d’origine carsica – chiamato nel corso dei secoli con diversi nomi, tra cui Eneo (dal latino Oeneus), Fiumara (soprattutto nella sua parte terminale), Recina e Rječina (in croato) – la separava fino al 1945 dalla cittadina croata di Sušak.
Fiume è il punto di convergenza di tre vie facilmente percorribili: a nord-ovest la via che la collega a Trieste, a sud-ovest quella della riviera orientale dell’Istria e a sud-est quella del litorale croato-dalmata. Geograficamente, il porto di Fiume costituisce lo sbocco di un vasto entroterra croato, lungo la direttrice Karlovac-Zagabria, e ungherese, da Karlovac a Budapest. È una posizione a cui corrisponde all’opposta estremità occidentale dell’Istria quella di Trieste, collegata a Vienna attraverso l’entroterra sloveno e carinziano-austriaco.
La mancanza di strade ostacolò tuttavia lo sviluppo di un movimento commerciale in direzione di questo entroterra fino al XVIII secolo, quando vennero costruite la Via Carolina (1728) e la Via Ludovicea (1803). La diffusione delle ferrovie nella seconda metà del XIX secolo favorì ulteriormente lo sviluppo mercantile della città, ormai stabilmente collegata, per via di terra, a Vienna tramite Lubiana e a Budapest passando per Zagabria, e, sul mare, alla costa adriatica italiana e alla Dalmazia fino alle bocche di Cattaro.
Nella seconda metà dell’Ottocento, nel periodo del cosiddetto “idillio ungherese”, si manifestò così pienamente la “vocazione” secolare della città: essere punto di transito, cerniera e sintesi tra il continente e il mare, tra lingue e culture diverse, mantenendo sempre tenacemente la sua prevalente, ma non esclusiva, identità linguistica e culturale di carattere italiano.
La consapevolezza di questa identità fondata su un’idea di nazione culturale, che nulla aveva a che fare con l’appartenenza politica, è a fondamento di quella autonomia municipale tenacemente rivendicata dai Fiumani nel corso dei secoli: la città si rifiutò sempre di essere incorporata in una provincia o entità politica intermedia (come la Croazia) e pretese di dipendere direttamente dal potere centrale di quell’Impero, al quale si dichiarava “fedelissima”.
Fu agli inizi del XX secolo che, di fronte al radicalizzarsi dei vari nazionalismi che minavano dall’interno la compagine dell’Austria-Ungheria, i Fiumani cominciarono a vedere nell’annessione all’Italia una soluzione idonea a garantire la loro identità linguistica e culturale.
Ma la Grande Guerra e la Conferenza della pace che ne seguì non portarono ad una armoniosa convivenza tra le varie nazioni di nuova formazione, bensì ad una grande instabilità e ad acuti conflitti. Dopo un periodo tormentato segnato dall’Impresa dannunziana e poi dall’esperimento fallito dello Stato Libero, nel 1924 Fiume fu annessa all’Italia.
L’appartenenza politica della città allo Stato italiano durò soltanto 23 anni. Travolta dai tragici eventi del Secondo conflitto mondiale, Fiume venne occupata dalle truppe comuniste jugoslave di Tito nel 1945: sottoposta ad una durissima repressione, nel giro di pochi anni si svuotò del 90% dei suoi abitanti e divenne l’attuale Rijeka, una città in cui i Fiumani italiani costituiscono circa l’1,5% su 175.000 abitanti.
1. DALLE ORIGINI ALL' VIII SECOLO D.C. : LA TARSATICA ROMANA
Fin dal paleolitico il territorio in cui più tardi sorse la città di Fiume era abitato, come attestato dagli scavi archeologici. In età storica il nome di questo territorio, che aveva come confine l’Istria ad occidente e il litorale della Dalmazia ad oriente, è Liburnia. I Liburni, appartenenti alla più vasta popolazione degli Illiri, abitavano la riva orientale del Quarnero e si dedicavano prevalentemente alla pirateria.
Fu per debellare la pirateria nell’Adriatico che i Romani mossero guerra agli Illiri e agli Istri a partire dalla fine del III secolo a. C. Nella seconda metà del II secolo a.C. l’Istria e la Liburnia erano ormai acquisite da Roma.
Intorno all’anno 129 a.C. venne costruito il cosiddetto “vallo romano”, una muraglia fortificata e presidiata, che da Haidovium (l’odierna Audissina) andava lungo l’altipiano del Carso fino nei pressi dell’attuale Fiume, destinata a separare i Giàpidi dagli Istri e a costituire una difesa da eventuali altri invasori. Probabilmente in questo stesso periodo venne costruito un fortilizio che diventò in età augustea la colonia militare di Tarsatica (Tarsactica), la città romana «antenata» di Fiume.
Tarsatica – un nome di origine celtica – sorgeva sulla riva destra del fiume Eneo. Come dimostrano i numerosi ritrovamenti archeologici, era una città di una certa importanza, con un foro, edifici pubblici, un tempio, una necropoli, delle terme e forse un teatro. L’unico monumento romano ancora oggi visibile nella Città vecchia è il cosiddetto Arco romano, probabilmente una porta della città. Una evidente affinità con Tarsatica ha il nome attuale della località di Tersatto, sede del celebre santuario, situata però oltre la riva sinistra dell’Eneo, laddove la romana Tarsatica era collocata sulla riva destra del fiume; non è chiaro come spiegare questa circostanza.
Poco sappiamo delle vicende di Tarsatica nel periodo imperiale. Nel V secolo d. C. l’Istria e la Liburnia furono devastate dalle scorrerie dei barbari. La riunificazione dell’Impero realizzata da Giustiniano nel 553 portò Tarsatica e la Liburnia sotto il dominio bizantino, ma i bizantini non furono in grado di difendere la frontiera balcanica dalle continue invasioni di popolazioni barbariche, Unni, Avari e Slavi.
Tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo giunsero nella penisola balcanica e sulle sponde dell’Adriatico gli Avari, al cui seguito c’erano diverse tribù di Slavi, progenitori di Serbi, Croati, Sloveni e Bulgari. I Croati occuparono l’Istria orientale, la Liburnia e la Dalmazia, affiancandosi e mescolandosi alla popolazione latina, rimasta in genere predominante nelle città costiere e nelle isole, e si convertirono al Cristianesimo a partire dal secolo VIII.
Fiume: arco romano (in realtà una porta della città romana)
2. IL MEDIOEVO. NASCE FIUME: DAL DOMINIO DEL VESCOVO DI POLA A QUELLO DEI DUINATI E DEI WALSEE
Dal VII secolo al XIII secolo sulla storia di Tarsatica scende un silenzio pressoché totale. La Liburnia entrò nella sfera del dominio dei Franchi e venne incorporata nella Marca orientale d’Italia o Marca del Friuli, che nel 828 risultava suddivisa in quattro contee: Friuli, Istria, Carniola e Liburnia. Secondo una fonte molto tarda, e quindi poco attendibile, Tarsatica sarebbe stata distrutta da Carlo Magno nell’800. Altre notizie non ci sono pervenute.
Solo nel secolo XIII la città che un tempo era stata Tarsatica riemerge dall’oscurità, ma il suo nome è cambiato: essa è ora designata come Flumen, Terra di Fiume di San Vito, San Vito al Fiume, Sankt Veit am Pflaum, Fiume, quest’ultimo tradotto nelle fonti croate in Reka o Rika. San Vito è il nome del patrono della città, in cui già nel XIII secolo esisteva una chiesa dedicata al culto di questo santo martire, insieme a san Modesto e santa Crescenzia.
Dal 1028 la città risulta infeudata al vescovo di Pola, che nel 1139 la cedette ai conti di Duino, pur restando aggregata sul piano della dipendenza ecclesiastica al vescovato di Pola fino al 1787. Il nome dei conti di Duino deriva dal castello di Duino situato presso le foci del Timavo nel golfo di Trieste e tuttora esistente.
Nel 1337 i Duinati, a corto di denaro per le continue guerre e per le spese di corte, cedettero Fiume ai dinasti croati Frangepani-Frankopan, conti di Veglia e vassalli della corona ungherese, che ne restarono in possesso per un periodo di quasi trent’anni. Nel 1365 i conti di Veglia restituirono la città a Ugone VI di Duino.
Nel gioco politico che interessava i territori dell’Alto Adriatico nei secoli XII-XIV la politica espansionistica di Venezia era diventata il fattore politico più importante. Per opporsi alla pressione della Serenissima i Duinati intrecciarono relazioni sempre più strette con gli Asburgo: nel 1366 prestarono giuramento di vassallaggio agli Asburgo e li sostennero militarmente nella successiva guerra contro Venezia. Il periodo duinate di Fiume durò 260 anni.
Nel 1399 il ramo maschile dei Duinati si estinse e i loro possessi, compresa Fiume, passarono alla casata dei Walsee, con cui i conti di Duino erano imparentati, anch’essa strettamente legata agli Asburgo. Ma, a differenza dei Duinati, i Walsee cercarono un’intesa amichevole con Venezia, stipulando accordi commerciali e marittima con la potente vicina.
Nel 1450 a Ramberto IV di Walsee successero i figli Ramberto V e Volfango III, che si divisero i possedimenti ereditari. Nel 1465 Volfango, al quale erano andate Fiume e la Carsia, designò come erede Federico III d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, e a quest’ultimo, qualche anno dopo, anche Ramberto alienò i suoi possessi ereditari. Con essi la casata dei Walsee si estinse e gli Asburgo entrarono in possesso di Fiume.
Nel periodo duinate Fiume dovette raggiungere una certa floridezza, dovuta soprattutto al commercio di transito tra l’Italia e la Carniola, floridezza documentata dalla costruzione di nuove chiese e edifici: nel 1315 vennero costruiti la Chiesa di san Girolamo e il Convento degli Agostiniani, intorno al 1377 venne innalzato il campanile accanto al Duomo (o chiesa di Santa Maria Assunta risalente forse al secolo XI) e quest’ultimo venne restaurato.
Di non minore importanza era l’antica chiesa di San Vito, il patrono della città. In essa era custodito un Crocifisso ligneo, che sarà poi collocato nell’altar maggiore dell’attuale Chiesa seicentesca, contro il quale, secondo la leggenda, un certo Pietro Lonzarich, nel 1227 o nel 1296, infuriato per aver perso al gioco, scagliò una pietra: dal costato del Cristo uscì allora un fiotto di sangue e la terra si aprì per inghiottire il sacrilego, lasciando fuori solo la mano colpevole. Questo miracolo sarebbe all’origine della costruzione della chiesa.
Lo sviluppo di Fiume si intensificò nel XV secolo nel periodo dei Walsee. La città, che si estendeva ad oriente fino al corso dell’Eneo, corrispondeva all’attuale Città Vecchia: era cinta da mura poggianti sui ruderi dell’antica Tarsatica, in cui si aprivano due porte, la “porta marina” nel luogo dove oggi c’è la Torre civica e la “porta superiore” sul lato opposto, dove oggi s’innalza il campanile di San Vito, ed era dominata dal Castello eretto sulle rovine della rocca romana. Il centro era la piazza del Comune, successivamente chiamata piazza delle Erbe, dove sorgeva la Loggia, in cui venivano emesse le decisioni del Consiglio e le sentenze dei giudici.
La popolazione di Fiume ammontava allora a circa 2000 anime e la città era divisa in quattro contrade o quartieri, i cui nomi coincidevano con i nomi dei santi a cui erano dedicate le chiese principali: i quartieri di Santa Maria (il Duomo), di Santa Barbara, di San Vito e di San Girolamo.
Sul piano economico il Quattrocento segna per la città l’inizio di un’ascesa che, sia pure con fasi alterne, proseguirà nei secoli successivi, raggiungendo il suo apice nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Come nel periodo duinate così nel periodo dei Walsee, dalla Carniola e dalla Croazia transitavano a Fiume ferro, granaglie, legnami e pellami; dall’Italia olio d’oliva, vini e tessuti. Particolare importanza avevano i traffici con i porti dello Stato Pontificio come Ancona, mentre il legname prendeva la via di Venezia. Va segnalata anche la presenza a Fiume di due cantieri navali e di alcune industrie minori.
Sappiamo che nel XV secolo il Comune fiumano aveva il diritto di amministrarsi in modo relativamente autonomo, il che portò ad opporsi in alcuni casi alle pretese del signore feudale, rappresentato nella città dal Capitano che risiedeva nel Castello. L’organo più importante del Comune era il Consiglio, formato da 16 o 18 cittadini ragguardevoli e benestanti, che eleggeva i due Giudici Rettori, che amministravano la giustizia insieme al Capitano. Tra le altre magistrature comunali va ricordato il Cancelliere a cui era affidata la cura degli archivi e del Liber civilium, nel quale venivano riportati gli atti pubblici e le scritture private da lui rogate. Il primo di questi libri del cancelliere risale al 1436 ed è scritto naturalmente in latino.
La lingua parlata in città dalla maggioranza del popolo apparteneva alla koiné veneta (con prestiti dal croato e dallo sloveno), come è documentato dalla cosiddetta tariffa del pesce stabilita dal Consiglio di Fiume il 10 gennaio 1449 e riportata nel Liber civilium del cancelliere de Reno, in cui si ordina, per esempio,
che ciascheduna persona de qual condicione volgia esser o sia che vora vender pesce in la terra de Fiume over in lo suo distrito debia vender ali prexi infrascripti zoè lo pesce de squama che sia de livra o più se debia vender de pasqua perfina a San Michele a soldo uno e mezo la livra grossa e da S. Michele perfina a carlevare a s. dui e la quaresima a soldi dui e mezo.
[…] item che le palamide se debiano vender a soldo 1 la livra cavando fora la interiora […]
Nel circondario si parlava il dialetto ciakavo croato, che nello Statuto cittadino del 1876 sarà chiamato, ai fini dell’istruzione pubblica, “illirico”.
Fiume medievale – Il Castello (non più esistente), disegno di Riccardo Gigante dei primi anni del 900 (Archivio Museo Storico di Fiume a Roma)
Fiume medievale – Barbacan, disegno di Riccardo Gigante dei primi anni del 900 (Archivio Museo Storico di Fiume a Roma)
Fiume medievale – Borgo, disegno di Riccardo Gigante dei primi anni del 900 (Archivio Museo Storico di Fiume a Roma)
La vecchia chiesa di San Vito che nella seconda metà del seicento fu sostituita dall’ attuale
Il miracoloso crocifisso, stampa del Karletzky
3. FIUME NEL CINQUECENTO: TRA VENEZIA, GLI ASBURGO E GLI USCOCCHI
Nel 1453 i Turchi avevano conquistato Costantinopoli (Bisanzio), ponendo fine all’esistenza dell’Impero romano d’Oriente o Impero bizantino. Negli anni successivi erano penetrati nella penisola balcanica, impadronendosi della Bosnia-Erzegovina (1463) e poi della Serbia (1496). Nel 1526 anche una parte l’Ungheria, compresa Buda, cadde sotto il dominio dei Turchi, che nel 1529 arrivarono ad assediare Vienna, pur non riuscendo ad espugnarla. Sotto costante minaccia erano la Dalmazia e Fiume, che infatti rafforzò le sue difese.
Gli Asburgo e Venezia avevamo un comune nemico nell’Impero ottomano, ma anche interessi opposti sia nell’area adriatica sia nel territorio di Gorizia. Così nel 1508 entrarono in guerra e il 27 maggio i Veneziani occuparono Fiume, che rimase sotto il dominio della Serenissima per poco più di un anno. Nel maggio 1509 Venezia, sconfitta ad Agnadello nel corso della guerra della Lega di Cambrai, fu costretta a ritirarsi da Fiume. Per ritorsione i Veneziani il 2 ottobre 1509 bombardarono Fiume dal mare e la saccheggiarono.
Fiume era già stata saccheggiata da Venezia nel 1369 durante il periodo duinate, ma il saccheggio del 1509 fu molto più distruttivo al punto che il capitano veneziano Angelo Trevisan scrisse in una lettera: “Et mai per lui non se dirà qua sono Fiume ma qua sono stato Fiume!”. Un’ultima devastazione della città quarnerina da parte di Venezia sarebbe avvenuta nel 1511, ma di essa poco sappiamo.
Fiume fu sempre ostile a Venezia: i Veneziani “per esperienza conoscono, che quando nasce un fiumano, nasce un capitale nemico del nome veneto”, così si legge in una lettera del 1604 indirizzata dal Consiglio fiumano all’Arciduca d’Austria. Agli Asburgo la città quarnerina si mantenne invece “fedelissima”, come aveva scritto nel 1515 l’imperatore Massimiliano in una lettera al Consiglio e al popolo della “nostra terra di Fiume”.
L’ostilità di Fiume nei confronti di Venezia si manifestò anche nella vicenda degli Uscocchi. I fuoriusciti dall’entroterra bosniaco e dalmata di fronte alla pressione turca ebbero sul litorale il nome di Uscocchi (dal croato medievale uskok che significa fuggitivo). Stabilitisi a Segna, gli Uscocchi praticavano la pirateria sul mare, in un primo momento ai danni dei Turchi e poi anche di Venezia, incoraggiati più o meno apertamente dagli Asburgo.
Ufficialmente le autorità fiumane negarono sempre ogni rapporto con gli Uscocchi, ma in realtà a Fiume essi avevano complicità e aiuti: in una pianta della città del 1671 è segnata in una località appena fuori le mura una “Hosteria dove alloggiano li Scocchi”!
Nella “guerra di Gradisca” (1615) tra Venezia e gli Asburgo Fiume si schierò ancora una volta con gli Uscocchi contro Venezia, ma la pace di Madrid del 1617, che pose termine al conflitto, segnò anche la fine degli Uscocchi che vennero dispersi nell’entroterra croato. Il trattato definitivo venne firmato l’8 agosto 1618 proprio nel Castello di Fiume ed alla presenza del Capitano Stefano della Rovere.
Alla fine del Cinquecento la popolazione di Fiume raggiunse i 3000 abitanti. La situazione economica della città subì un certo peggioramento sia per la scelta degli Asburgo di favorire Trieste, sia a causa del pericolo turco.
Il peso della lingua e della cultura italiane aumentò nel corso del secolo, mentre la presenza culturale croata nella città è documentata dalla presenza di una tipografia in caratteri glagolitici (1530).
4. LO STATUTO FERDINANDEO DEL 1530: L' AUTONOMIA DI FIUME
Il 29 luglio 1530 l’imperatore Ferdinando I d’Asburgo sancì con una lettera patente sovrana lo Statuto della città di Fiume. Redatto dal ferrarese Goffredo Confalonieri, lo Statuto ferdinandeo confermava le franchigie secolari di Fiume. Il testo è in latino, ma esiste una versione manoscritta coeva redatta in italiano, conservata in originale nell’Archivio Museo Storico di Fiume a Roma.
Lo Statuto è diviso in quattro libri: il primo tratta dell’ordinamento del Comune, il secondo della procedura nelle cause civili, il terzo della procedura nelle cause penali e il quarto delle “cose straordinarie” ossia di disposizioni su varie materie.
L’ordinamento già vigente del Comune venne nella sostanza confermato.
Rappresentante del Sovrano, da cui veniva nominato, era il Capitano: abitava nel Castello insieme a una piccola guarnigione e presiedeva il Consiglio. Luogotenente del Capitano era il Vicario, nominato dal sovrano fino al 1574 ma poi eletto dal Consiglio.
L’organo di autogoverno della città era il Consiglio Maggiore, composto da 50 persone, che eleggeva un Consiglio Minore di 25 membri. Il Consiglio Maggiore era un organo di fatto ereditario in cui si entrava per nascita e per cooptazione e i consiglieri costituivano il patriziato cittadino. I due Giudici Rettori erano i magistrati più importanti: uno era nominato dal Capitano in seno al Consiglio Minore e l’altro era eletto dal Consiglio Maggiore. Tra gli altri magistrati vanno ricordati il Cancelliere e i Sindaci. Il Cancelliere, nominato dal Consiglio, aveva il compito di custodire tutte le scritture pubbliche e private e redigere i verbali del Consiglio. I Sindaci, eletti in numero di tre dal Consiglio Maggiore, controllavano l’operato dei magistrati compreso il Vicario.
Lo Statuto ferdinandeo rimase in vigore fino agli inizi del secolo XIX e ad esso i Fiumani si richiameranno costantemente contro i tentativi di limitare l’autonomia della città, che già nel Cinquecento era, analogamente a Trieste, una città immediata, ossia non annessa a nessuna provincia, ma dipendente direttamente dal potere centrale. Infatti, mentre in genere le città della casa d’Austria prestavano omaggio al Sovrano unite alla provincia di appartenenza, Fiume, come Trieste, godeva del privilegio di prestare l’omaggio separatamente. Questa posizione particolare è documentata anche dal fatto che Fiume nei secoli XVI-XVII aveva propri consoli, nominati dal Consiglio, in diverse città italiane, come Ancona, Barletta, Manfredonia, Civitavecchia e Messina.
La città perse questo diritto nel 1748, quando, nel quadro della politica dell’assolutismo illuminato, venne istituita la Provincia mercantile del Litorale.
Due pagine dello Statuto ferdinandeo del 1530 nella versione italiana coeva (originale custodito all’ Archivio Storico di Fiume a Roma)
Fiume in una stampa del 1579
5. FIUME NEL SEICENTO: DECLINO TURCO E RINASCITA DELL' UNGHERIA
Nel corso del Seicento si manifestò un progressivo declino dell’Impero ottomano, e, connessa a tale declino, la rinascita del Regno d’Ungheria.
Nel 1683 i Turchi fallirono per la seconda volta la conquista di Vienna, sbaragliati dal re polacco Giovanni Sobieski. Come in buona parte dell’Europa, anche a Fiume il Consiglio e il Capitano organizzarono grandiosi festeggiamenti per la vittoria “non nei secoli udita contro il comune Inimico ottomano”, come si legge nel verbale del Consiglio.
Il 2 settembre 1686 l’esercito imperiale dell’arciduca Carlo conquistò Buda, la capitale ungherese che era stata soggetta al dominio ottomano per un secolo e mezzo. Anche questa vittoria fu festeggiata a Fiume con cerimonie religiose, luminarie, danze e distribuzioni di vino. I successi dell’esercito imperiale, guidato dal 1697 da Eugenio di Savoia si moltiplicarono. La Transilvania venne riunita all’Ungheria e Leopoldo I d’Asburgo divenne anche re d’Ungheria.
La pace di Carlowitz del 26 gennaio 1699 sancì il definitivo declino dell’Impero ottomano e segnò nel contempo il ritorno sulla scena europea dell’Ungheria, riunificata sotto lo scettro degli Asburgo. Col successivo trattato di Passarowitz del luglio 1718 l’Austria ampliò ulteriormente i suoi domini nella penisola balcanica a spese dei Turchie l’Ungheria riacquistò tutto il suo antico territorio dai Carpazi al basso Danubio, compresa Fiume destinata a servire da scalo portuale per i prodotti dell’area della corona ungarica.
L’evento più importante nella storia culturale di Fiume nel Seicento fu l’apertura nel 1627 del Collegio dei Gesuiti, a cui il Comune dette una sovvenzione annua e affidò la chiesa di San Rocco. Le materie di studio erano latino, greco, storia, religione, geografia e aritmetica. Nelle classi superiori la lingua d’istruzione era il latino e nei corsi inferiori l’italiano. Gli scolari provenivano, oltre che da Fiume, dalla Carniola, dall’Istria, dalla Dalmazia ed anche dalle province austriache, ed erano di nazionalità mista (italiana, croata, slovena e austriaca). Negli ultimi anni del Seicento il loro ammontava ad oltre 150, un numero considerevole, se si pensa che la città aveva circa 3000 abitanti. Il Collegio gesuitico, che ebbe una vita fiorente fino alla soppressione dell’Ordine nel 1773, fu un efficace strumento di promozione culturale e di diffusione della lingua italiana nella città e anche oltre le mura cittadine.
Nel corso del secolo l’autonomia cittadina si consolidò contro vari tentativi di limitarla operati soprattutto da alcuni Capitani in opposizione al Consiglio. A conferma di tale autonomia, il 6 giugno 1659 l’imperatore Leopoldo I concesse a Fiume il diritto a uno stemma e a un vessillo. Fino ad allora sul sigillo della città c’era l’immagine di San Vito, mentre lo stemma del 1659 è un’aquila imperiale bicipite volta a sinistra con la zampa sinistra posta su un vaso da cui fuoriesce dell’acqua, e con una scheda sottostante che porta l’iscrizione Indeficienter (inesauribilmente, senza fine, riferito all’acqua e alla fedeltà della città agli Asburgo). A ricordo del precedente sigillo il Comune usò lo stemma leopoldino spesso fiancheggiato dai Santi Vito e Modesto. Dai colori dello stemma – rosso carminio del campo, giallo oro della cornice e blu oltremare dello sfondo – derivò la bandiera di Fiume, un tricolore a bande orizzontali con i colori disposti dall’alto in basso nell’ordine menzionato.
Nella seconda metà del Seicento la popolazione di Fiume superò i 3000 abitanti e si ebbe un miglioramento della situazione economica, come è dimostrato dal fatto che si stabilirono a Fiume con le loro famiglie alcuni mercanti italiani, come i cremonesi Benzoni, i pugliesi Bono, gli istriani De Franceschi, i veneziani Orlando.
Nell’aspetto architettonico della città ci furono importanti novità. Il grande Capitano Stefano della Rovere fece ricostruire il Castello, affidandone la realizzazione al pittore e architetto lodigiano Giovanni Pietro Telesphoro de Pomis, che fu attivo anche a Tersatto. Al posto della antica chiesa di San Vito, i Gesuiti fecero costruire una nuova grande chiesa a forma circolare che ricorda quella della basilica di Santa Maria della Salute a Venezia; i lavori, sotto la direzione di Francesco Olivieri, si protrassero dal 1638 al 1744. Nel 1632 fu costruito il primo ponte sull’Eneo.
Vanno infine ricordate alcune personalità ecclesiastiche di spicco come il vescovo di Segna e Modrussa Giovanni Agalich (1588-1649), che collaborò con il teologo e letterato francescano, autore di importanti opere in latino, italiano e croato, Francesco Glavinich (1585-1652) e Pietro Mariani (1611-1665), uomo di profonda dottrina e diplomatico, che si segnalò per la sua opera volta al miglioramento dei costumi e dell’istruzione del clero.
Pianta di Fiume seicentesca dedicata al barone Pietro de Argento, capitano della città dal 1672 al 1694
Stemma di Fiume concesso dall’imperatore Leopoldo I il 6 giugno 1659
6. FIUME NEL SETTECENTO : PORTO FRANCO E “CORPO SEPARATO” ANNESSO ALL' UNGHERIA
Con la Prammatica Sanzione, emanata dall’imperatore Carlo VI nel 1713, venne introdotto nella monarchia asburgica il principio della successione al trono anche per via femminile. Tutti gli Stati e le provincie dell’Impero furono chiamati ad approvarla e nel 1720 l’imperatore sollecitò a tale scopo anche i “fedeli, cari Giudici e Consiglio della città di Fiume”.
Un anno prima, con la patente del 18 marzo 1719 Carlo VI aveva istituito Fiume porto franco (insieme a Trieste). Al porto fiumano furono concessi importanti privilegi, come l’esenzione doganale per le navi in entrata e in uscita, e così il traffico di Fiume, fino ad allora quasi esclusivamente adriatico, si ampliò ben presto fino a diventare mediterraneo.
Carlo VI provvide anche a potenziare le vie di accesso alla città: fu allargata la strada della Germania, che attraverso la Slovenia collegava Fiume all’Austria, e nel 1726 venne costruita la strada Carolina (così detta in onore del Sovrano), che congiunse Fiume all’Ungheria attraverso la Croazia. Il sistema viario fu completato nel 1760 con la costruzione della strada Giuseppina, un ramo laterale della Carolina, che da Bogliuno d’Istria portava a Castua e quindi a Fiume.
Questi provvedimenti rafforzarono il legame di Fiume con l’Ungheria. Nel 1771 Fiume “si poteva considerare già essenzialmente come porto ungherese, poiché in quell’anno la sua esportazione consisteva per due terzi di merci ungheresi, e soltanto per un terzo di mercanzie di provenienza austriaca” (Alfredo Fest).
Nel 1748, allo scopo di unificare l’amministrazione dei diversi comuni della costa liburnica e istriana, l’imperatrice Maria Teresa, succeduta nel 1740 a Carlo VI, istituì la Provincia mercantile del Litorale, dipendente da una Intendenza che aveva sede a Trieste, e alla nuova Provincia venne assegnata anche Fiume. Contro l’accentramento del commercio marittimo a Trieste protestarono gli Ungheresi, i Croati e naturalmente i Fiumani.
Maria Teresa emanò allora il rescritto del 14 febbraio 1776: l’amministrazione di Fiume spettava all’Ungheria a mezzo del Consiglio di Zagabria ossia attraverso la Croazia. Fiume veniva così finalmente sottratta alla concorrenza di Trieste, ma il fatto che l’annessione all’Ungheria si realizzasse tramite la Croazia suscitò la netta opposizione dei Fiumani. Il Consiglio protestò e richiese che la città, da sempre “considerata una provincia separata”, fosse annessa direttamente al Regno d’Ungheria.
Dopo oltre un anno di dispute, Maria Teresa tornò sui suoi passi: il Diploma del 23 aprile 1779, annesso a un nuovo rescritto, modificò la situazione nel senso voluto dai Fiumani, stabilendo che questa città commerciale di Fiume S. Vito col suo distretto si debba anche per il futuro considerare come corpo separato, annesso alla corona del regno d’Ungheria, e così venga trattato in tutto e non confuso per alcun riguardo col distretto di Buccari appartenente fin dai suoi primordi al regno di Croazia.
Venne così ribadita e rafforzata la particolare posizione di Fiume come “città immediata” ossia corpo separato da ogni altra provincia.
Il Diploma del 1779 fu comunque oggetto di interpretazioni contrastanti, dando origine a una polemica storico-giuridica durata oltre un secolo tra Fiumani e Ungheresi da una parte e Croati dall’altra.
La politica di Maria Teresa e dei suoi successori, denominata “dispotismo illuminato”, promosse lo sviluppo economico di Fiume, ma portò anche ad una limitazione dell’autonomia municipale. Pur senza mettere in questione lo Statuto del 1530 e nonostante il Diploma del 1779, importanti attribuzioni, come la prerogativa di nominare consoli, vennero tolte al Consiglio e il Comune venne sottoposto ad un maggiore controllo dello Stato.
Nel Settecento, e sopratutto negli anni 1776-1809 ossia nel primo periodo ungherese di Fiume, la città conobbe uno sviluppo notevole sotto vari aspetti, a cominciare da quello demografico: la popolazione passò da 5.132 a 8.958 anime con un aumento di oltre il 74% . Aumentò l’immigrazione dall’Istria, dal Friuli e dalla Croazia. Nel 1733 si stabilirono a Fiume alcune famiglie di Serbi e di Greci di religione ortodossa e nel 1786 venne costruita la Chiesa greca di San Nicolò. La cittadinanza fiumana era conferita con larghezza, perché – come si legge in un documento del Consiglio del 1795 – “il vantaggio d’una libera marittima commerciale città è d’aver numeroso il Popolo”.
Il sistema viario fu potenziato con la costruzione (1803-1809) di una nuova strada più moderna, parallela alla via Carolina, la via Ludovicea. Ciò favorì lo sviluppo del commercio e si accompagnò alla nascita di nuove attività industriali: nel 1750 venne costruito uno stabilimento per la raffineria dello zucchero che impiegava oltre 700 persone.
A partire dal 1775 Fiume cominciò ad estendersi al di fuori della cinta muraria: nuovi edifici vennero costruiti lungo il mare e sulle pendici delle colline. Nel 1722 venne costruito il Lazzaretto, poiché lo sviluppo del traffico marittimo comportava l’arrivo di navi provenienti da porti a rischio.
Il Palazzo del Governo (1780) e numerose altre opere in stile “barocchizzante” vennero realizzate dall’architetto triestino Antonio Gnamb, che operò diversi anni nella città inseme ad altri architetti e scultori italiani, come il trevigiano Minnini che progettò il palazzo dell’amministrazione della Raffineria dello zucchero in stile barocco-classicistico (1786).
Nel 1778 Fiume ebbe la sua prima tipografia stabile e una casa editrice fondata da Lorenzo Karletzky proveniente dalla Boemia. Tra gli uomini di cultura fiumani del periodo vanno ricordati Giuseppe Bardarini, storico e autore di importanti trattati di teologia, Giuseppe Zanchi, autore di opere filosofiche, teologiche, storiche e scientifiche; Francesco Saverio Orlando, erudito e poliglotta, i predicatori Ludovico Bajelardo e Giuseppe Francesco Spingaroli.
Nella seconda metà del secolo si formò in città una importante scuola di medicina, per impulso di Saverio Graziano, originario di Barletta e divenuto nel 1740 protomedico della città. Nel 1786 venne aperta una Scuola d’ostetricia ad opera del chirurgo fiumano Giacomo Cosmini. Medico di formazione fu anche Nicolò Host, uno dei massimi botanici del tempo (Flora austriaca, 1827).
Diploma di Maria Teresa del 1779 in cui Fiume viene riconosciuta “corpo separato annesso direttamente alla Corona d’Ungheria”
7. IL PERIODO FRANCESE (1809-1813) E IL RITORNO ALL' UNGHERIA NEL 1822
La Rivoluzione francese del 1789 e la guerra tra la Francia e i paesi della coalizione europea scoppiata nel 1793 non produssero effetti significativi sulla vita di Fiume. Ma nel 1796 la guerra interessò l’Italia settentrionale: i Francesi attaccarono le città pontificie di Ferrara, Bologna e Ancona, nel marzo 1797 entrarono a Trieste e il 5 aprile occuparono Fiume per alcuni giorni. Con il Trattato di Campoformio (ottobre 1797), che segnò la fine della Repubblica di Venezia, Fiume continuò a dipendere dall’Impero austriaco, mentre l’Istria e la Dalmazia passarono ai Francesi.
Il 14 ottobre 1809 con il Trattato di Schönbrunn Fiume fu ceduta alla Francia dall’Impero d’Austria – il titolo di Imperatore d’Austria era stato assunto nel 1804 da Francesco II, che aveva così posto fine all’esistenza secolare del Sacro Romano Impero, diventando Francesco I d’Austria – e fino al 1813 fece parte, all’interno dell’Impero napoleonico, delle Province Illiriche, uno Stato che si estendeva dal confine austro-bavarese alle Bocche di Cattaro. Fiume venne così a dipendere di nuovo dalla Croazia e lo Statuto cittadino venne abolito: il 7 marzo 1812 si riunì il nuovo Consiglio municipale presieduto dal maire o borgomastro, di nomina francese, Paolo Scarpa. Ma, dopo qualche mese, nel 1813, con la sconfitta di Napoleone nella campagna di Russia, la città quarnerina ritornò all’Impero d’Austria.
Le autorità municipali fiumane in un rapporto al governo austriaco del 27 ottobre 1813 tracciarono un bilancio del tutto negativo dell’“inumano governo francese”: un “micidiale” fiscalismo e “gravezze di ogni genere, quasi inconcepibili” avevano ridotto la città allo stremo. Ciò spiega l’accoglienza trionfale riservata dai Fiumani al generale austriaco Laval Nugent entrato a Fiume alla fine di agosto 1813.
L’entusiasmo dei Fiumani per il ritorno dell’Impero d’Austria si trasformò però ben presto in delusione: la città infatti non venne reincorporata all’Ungheria, non vide ripristinate le sue libertà municipali e continuò a declinare economicamente.
Finalmente il 5 luglio 1822 l’imperatore Francesco I proclamò la sua decisione di restituire al Regno d’Ungheria una parte del Litorale austriaco con Fiume. La decisione suscitò grandissima gioia nei Fiumani che accolsero festanti il 15 ottobre 1822 il conte György Majláth giunto in città per prenderla in consegna in nome del Governo ungherese: un coro di fanciulle cantò un inno composto per l’occasione in cui si diceva:
Or che tornati siamo / Al Regno d’Ungheria / Ognuno lieto sia / E giubili nel cuor; / Ed al suo Re diletto / Che saggio lo governa / Giuriamo fede eterna, / Giuriamo eterno amor.
Vennero ripristinate le condizioni anteriori al 1809 con il Litorale ungarico retto da un governatore ungherese con sede a Fiume e l’amministrazione della città affidata nuovamente al Consiglio cittadino composto da 50 patrizi. Il periodo 1822-1848 costituisce il secondo periodo ungherese di Fiume, caratterizzato da un rinnovato slancio economico e da un significativo sviluppo culturale.
Grande protagonista del rinnovamento cittadino fu Andrea Lodovico de Adamich (1767-1828): convinto che il futuro economico di Fiume dipendeva dai traffici con i paesi del bacino danubiano, diede vita a diverse importanti iniziative imprenditoriali, tra cui la fondazione sull’Eneo di una cartiera, poi acquistata nel 1828 da Walter Smith, fratello dell’economista Adam, e da Charles Meynier. Attivo in politica – rappresentò la città nel 1822 al Congresso di Verona della Santa Alleanza e nel 1825 alla Dieta di Pressburgo – contribuì anche allo sviluppo culturale di Fiume, progettando e facendo costruire a proprie spese un grande teatro, detto Adamich in suo onore (che verrà sostituito nel 1885 dal monumentale Teatro Verdi).
Vanno ricordati anche Gasparo Matcovich (1797-1881), imprenditore e politico, a cui si deve l’arrivo a Fiume di Robert Whitehead, il creatore del Silurificio, e Iginio Scarpa (1794-1866), figlio di Paolo che era stato maire nel periodo francese, a cui risale la valorizzazione turistica di Abbazia. Va menzionato infine il conte Laval Nugent von Westmeath, il liberatore della città nel 1813, che, con l’aiuto di Adamich, acquistò e restaurò il castello di Tersatto, facendone il sepolcro della famiglia e fondandovi nel 1843 un museo.
Dopo una lieve flessione negli anni 1810-1822, la popolazione di Fiume continuò a crescere, raggiungendo gli 11.867 abitanti nel 1847.
Nel 1831 fu elaborato il progetto di un grande ampliamento del porto, che verrà però realizzato, e migliorato, solo nella seconda metà del secolo. L’avvento del trasporto ferroviario mise all’ordine del giorno la costruzione di una linea ferroviaria tra Fiume e Budapest, destinata anch’essa ad essere realizzata negli anni successivi ai sommovimenti del 1848.
Un considerevole slancio conobbe l’attività industriale. Nel 1851 il governo acquistò l’edificio della vecchia Raffineria degli zuccheri (chiusa nel 1820) e vi inaugurò la nuova grande Fabbrica tabacchi. Si è già accennato alla cartiera di Smith e Meynier: il grande stabilimento, situato sulle due rive della Fiumara a circa quattro chilometri dal centro cittadino, esportava carta di alta qualità non solo in Austria, ma anche in Inghilterra e in Brasile. Nel 1841 sulle pendici del monte che conduce alla valle detta Žakalj , sorse una grandiosa fabbrica di farine (che nel 1886 macinava in media 500 quintali di grani al giorno). Anche la tradizionale industria della costruzione navale fece segnare una vigorosa ripresa: le navi costruite a Fiume erano ricercate in tutti i paesi, anche in America, e procuravano alla città un profitto di quasi due milioni di franchi all’anno.
Vennero istituite diverse opere di pubblica utilità come l’Istituto generale dei poveri detto anche Istituto Branchetta, perché finanziato dai fratelli Antonio e Costantino Branchetta, commercianti. Nel 1823 venne inaugurato il nuovo Ospedale; nel 1833 venne completato il nuovo Lazzaretto di San Francesco in Martinschizza e nel 1841 venne fondato l’Asilo di Carità per l’Infanzia.
Nello sviluppo della vita culturale cittadina un ruolo importante fu svolto naturalmente dal Teatro fondato da Adamich, nonché da alcune associazioni private, tra cui il Casino dei commercianti che, aperto nel 1806, assunse nel 1848 il nome di Casino patriottico. Nella tipografia fondata da Lorenzo Karletzky, che aveva assunto il nome di “Fratelli Karletzky tipografia governiale”, venne stampato nel 1813 il primo giornale fiumano Le Notizie del Giorno, il periodico bisettimanale l’Eco del Litorale ungarico (dal 5 aprile 1843 al 4 aprile 1846) ed altri giornali e riviste.
Nel campo della medicina va ricordata la figura di Giovanni Battista Cambieri (1754-1838): nato nel 1754 nei pressi di Pavia, si trasferì a Fiume nel 1797 dove svolse la sua attività di protomedico del Litorale per 41 anni, studiando a fondo il cosiddetto morbo di Škrljevo , che imperversava soprattutto nelle aree rurali della zona , e classificandolo correttamente come una forma di sifilide da trattare con composti mercuriali. Cambieri fu anche un grande filantropo: per decenni coprì le spese per la cura dei poveri con il suo patrimonio, che alla sua morte lasciò interamente all’Ospedale in cui lavorava.
Un busto di Cambieri venne scolpito nel 1840 dallo scultore fiumano Pietro Stefanutti (1822-1858), uno dei protagonisti della vita artistica fiumana del tempo. Vanno ricordati anche i pittori Francesco Colombo – scomparso appena ventitreenne nel 1843 e di cui restano poche ma significative opere –, Alberto Angelovich (1822-1849), Marco Chiereghin (1777-1831) e soprattutto Giovanni Simonetti (1817-86).
Il 9 maggio 1821 venne aperta una scuola di musica diretta da Venceslao Wenczel e Giuseppe Prohaska. Morto il Wenczel nel 1835, la direzione fu assunta da Giovanni Zaytz, sostituito a sua volta dal figlio Giovanni. Giovanni Zaytz jr (1832-1914) studiò composizione al Conservatorio di Milano e nel 1860 fece rappresentare a Fiume la sua opera Amelia. Nominato nel 1869 direttore del Teatro dell’opera di Zagabria, si dedicò alla composizione di una serie di opere ispirate alla storia nazionale croata.
Opuscolo anonimo pubblicato a Fiume nel 1823 per festeggiare la reincorporazione al Regno d’Ungheria (Archivio Museo Storico di Fiume a Roma)
8. IL PERIODO CROATO 1848-1869
L’assetto politico europeo stabilito dal Congresso di Vienna fu sconvolto dai moti nazional-liberali. Nel 1848 interessarono buona parte dei paesi europei e in particolare l’Italia e l’Ungheria all’interno dell’Impero d’Austria.
Nel marzo 1848 l’imperatore Ferdinando I, succeduto a Francesco I nel 1835, nominò bano della Croazia il generale Josip Jelačić, fautore del Triregno ossia dell’unione di Croazia, Slavonia e Dalmazia all’interno dell’Impero, e il 3 giugno 1848 la Dieta di Zagabria dichiarò di considerare la Croazia sciolta da ogni legame giuridico-amministrativo con l’Ungheria e di “ritenere i distretti di Fiume, Buccari il marittimo o di Vinodol parti integranti del Triregno”.
Così il 31 agosto Fiume fu occupata dalle truppe croate di Josip Bunjevac, in nome del bano della Croazia Jelačić e il governatore ungherese Erdödy dovette abbandonare la città. Nello stesso giorno Bunjevac comunicò al Consiglio municipale il proposito di conservare “intatte le vostre prerogative municipali, nonché le vostre istituzioni cittadine” e “l’uso della lingua italiana”.
Il Consiglio protestò comunque contro l’arbitraria occupazione militare e inviò una rimostranza proprio a Jelačić a Zagabria, per lamentare il mancato rispetto della “qui universalmente usitata lingua italiana”, nonostante i propositi dichiarati di Bunjevac.
Nell’agosto 1849 la rivoluzione ungherese si concluse con una completa sconfitta e la politica austriaca imboccò la strada di una dura restaurazione assolutistica. Questo orientamento mutò dopo l’esito sfavorevole per l’Austria della guerra del 1859. Nell’ottobre 1860 l’imperatore Francesco Giuseppe decise infatti di restituire un ruolo autonomo all’Ungheria, aprendo in tal modo per i Fiumani la prospettiva di una riannessione al Regno magiaro.
Il Consiglio fiumano esercitò a tal proposito continue pressioni sull’imperatore, richiamandosi al Diploma teresiano del 1779 e denunciando il 31 gennaio 1861 la politica delle autorità croate ostile alla “lingua italiana, che è pur quella, che si parla sino da che Fiume esiste”. Nell’aprile dello stesso anno, chiamati ad eleggere i propri deputati alla Dieta di Zagabria, I Fiumani a stragrande maggioranza scrissero sulla scheda “nessuno”!
Sconfitta nella guerra contro la Prussia del 1866, l’Austria si decise finalmente ad adottare un parziale decentramento. Il 12 giugno 1867 entrò in vigore il Compromesso (Ausgleich) austro-ungarico: l’Ungheria acquisì una condizione di parità con l’Austria e l’Impero – divenuto Austro-ungarico o Duplice Monarchia – fu diviso in due parti unite dal vincolo dinastico (e da tre ministeri in comune): la Cisleitania con capitale Vienna e la Transleitania con capitale Budapest.
Anche la questione di Fiume si avviò a soluzione: il 5 aprile 1867 su proposta del governo ungherese venne nominato Commissario straordinario di Fiume Edoardo de Cseh, accolto trionfalmente dai Fiumani il 7 maggio. Con ciò ebbe fine il dominio croato e venne ristabilito il legame della città quarnerina, con l’Ungheria. Con il rescritto del 26 maggio 1867 Fiume ebbe il diritto ad un seggio nella Dieta ungarica e nel giugno dello stesso anno i Fiumani elessero deputato l’ungherese Ákos Radics, che aveva promesso di difendere l’autonomia cittadina “e la sola possibile lingua per Fiume, l’italiana”. Iniziò così il terzo periodo ungherese di Fiume, di cui si dirà nel prossimo capitolo.
Nel periodo croato la popolazione passò dalle 11.865 anime del 1847 alle 17.884 del 1869.
Sul piano dei traffici commerciali si verificò una battuta d’arresto, dovuta all’indirizzo assolutista-centralistico della politica austriaca, che, volta a favorire Trieste, trascurò i lavori del porto progettati e iniziati nel secondo periodo ungherese e lo sviluppo delle linee ferroviarie verso la Croazia e la pianura ungherese.
La crisi risparmiò invece l’industria fiumana (il cui volume era pari al 50% di quello dell’industria dell’intera Croazia). L’industria della costruzione navale continuò a svilupparsi, così come la Fabbrica di prodotti chimici della Società anonima fiumana guidata da Walter Crafton Smith, la Fonderia metalli – inaugurata nel 1855, che prenderà il nome di Stabilimento tecnico e al cui posto sorgerà più tardi il silurificio Whitehead – , la Fabbrica tabacchi, che divenne la più grande manifattura del settore in tutto l’Impero, la Cartiera, che esportava carta in tutto il mondo, ecc.
Al dinamismo industriale corrispose uno sviluppo del settore bancario. Nel 1855 venne aperta nella città la filiale della Banca Austro-ungarica e il 1° gennaio 1859 venne istituita la locale Cassa Comunale di Risparmio, che dal 1859 al 1886 fece registrare un costante aumento di capitale e del numero dei depositanti.
Il 1° agosto 1852 fu introdotta nella città l’illuminazione a gas, nel 1855 venne aperta la linea telegrafica tra Fiume e Trieste e nel 1858 quella tra Fiume e Segna. Le due rive della Fiumara furono unite da un nuovo ponte di ferro.
Il 26 marzo 1856 l’arciduca Ferdinando Massimiliano pose la prima pietra del grande edificio della Accademia di Marina, che venne solennemente inaugurata il 4 ottobre dell’anno successivo.
Per quanto riguarda l’istruzione, un grande impulso ebbe quella femminile. con la realizzazione di diversi istituti specifici dal grado elementare a quello superiore.
Grande rilievo ebbe in questo periodo la presenza culturale e politica croata. A Fiume Ljudevit Gaj, il fondatore dell’Illirismo, trasferì la redazione della sua rivista Neven e nel ginnasio croato della città insegnarono i più importanti intellettuali croati dell’epoca. Nel 1855 venne inaugurata la Narodna čitaonica riječka, la Sala popolare di lettura croata. Dal 1861 al 1866 visse nella città quarnerina Ante Starčević, fondatore insieme a Eugen Kvaternik del Partito croato del diritto, che fu in stretti rapporti col fiumano Erazmo Barčić (1830-1913), avversario degli autonomisti in nome di una organica visione nazionalistica croata, che aveva uno dei suoi modelli proprio nel Risorgimento italiano.
Al nazionalismo croato i Fiumani italiani opponevano una difesa dell’italianità sul piano linguistico e culturale, mentre sul piano politico il “patriottismo” da essi professato era indiscutibilmente ungherese. Difesa intransigente dell’autonomia municipale e lealismo politico magiaro: questa posizione era sostenuta dalla stampa cittadina, come l’Eco di Fiume, comparso nel 1854, e La Bilancia, settimanale e poi quotidiano fondato nel 1867 dall’editore e scrittore Emidio Mohovich.
Argomentare sul piano scientifico questa posizione autonomista fu il compito della storiografia fiumana, il cui atto di nascita risale alla decisione presa dalla Municipalità fiumana il 3 luglio 1848, quando l’occupazione croata di Fiume era ormai nell’aria, di nominare una Commissione storica di cinque membri per difendere con una indagine documentata “i diritti [della città] stabiliti col Diploma teresiano dell’anno 1779 e colle successive relative leggi”. A far parte della Commissione furono chiamati Giuseppe Politei, Ludovico Giuseppe Cimiotti, Girolamo Fabris, Giovanni Kobler e Pietro Rinaldi. Frutto immediato di questa decisione fu l’Almanacco fiumano, edito con cadenza annuale dal 1855 al 1860 a cura del Politei.
Uno dei membri della Commissione, l’erudito Ludovico Giuseppe Cimiotti lasciò inedita una storia di Fiume in sei volumi scritta in latino e intitolata Publico-politica Terrae Fluminis S. Viti adumbratio historice ac diplomatice illustrata.
9. L’“IDILLIO UNGHERESE”
Con il rescritto del 7 novembre 1868 Francesco Giuseppe confermò la posizione di Fiume “corpo separato annesso alla Sacra Corona Ungarica” e invitò la Dieta ungarica, quella croata e la città di Fiume ad eleggere le proprie deputazioni per pervenire ad un accordo definitivo sulla posizione giuridica della città. Le tre deputazioni non riuscirono però a raggiungere un’intesa, limitandosi a proporre una soluzione temporanea, il cosiddetto Provisorium, che non divenne mai defnitivo e rimase in vigore fino al crollo dell’Impero nel 1918!
Il rescritto del 28 luglio 1870 sancì le disposizioni del Provisorium: il Governatore di Fiume e del litorale ungaro-croato, di nomina regia, era l’intermediario tra il Comune e il governo di Budapest e aveva il controllo politico della città e del distretto, la cui amministrazione spettava invece al Municipio sulla base di uno Statuto che doveva essere emanato dalla città stessa.
Il governatore József Zichy si insediò il 14 dicembre 1870 e il 7 aprile 1872 lo Statuto della libera città di Fiume e del suo distretto, elaborato da una Commissione municipale, fu approvato dal governo ungarico. Nello Statuto del 1872 Fiume si presentava esplicitamente come terzo fattore alla pari con l’Ungheria e la Croazia, tanto che nella sua comunicazione ufficiale il governatore Zichy richiamò il principio dell’autodeterminazione della città: nihil de nobis sine nobis.
La Rappresentanza municipale, ossia il Consiglio, composta da 50 consiglieri per la città e 6 per il distretto (i sottocomuni di Plasse, Cosala, Drenova), durava in carica sei anni e al suo interno veniva eletto il Podestà.
Gli anni 1869-1896 costituiscono il periodo del cosiddetto idillio ungherese: tra Fiume e l’Ungheria si stabilirono stretti legami economici, sociali, politici e culturali. Attraverso Fiume si intensificò l’interesse degli Ungheresi per la cultura italiana. I Fiumani, a loro volta, contribuirono alla diffusione della letteratura magiara in Italia: tra i traduttori dall’ungherese vanno ricordati Pietro Zambra, Ernesto Brelich, Francesco Sirola, Silvino Gigante. Anche dopo la dissoluzione dell’Impero, questa tradizione continuò nel Novecento con Enrico Burich – traduttore nel 1931 del romanzo I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár –, Antonio Widmar, Paolo Santarcangeli e Ignazio Balla, e con la rivista italiana Corvina edita dalla Società Mattia Corvino di Budapest dal 1921 al 1944.
Protagonista dello sviluppo di Fiume in questo periodo fu Giovanni de Ciotta (1834-1903), che guidò la città come Podestà dal 1870 al 1896. Deciso fautore dell’autonomia municipale e del legame di Fiume con l’Ungheria, si prodigò con energia e intelligenza per lo sviluppo economico, sociale e culturale della città. Filantropo e uomo di cultura, oltre alla realizzazione dell’acquedotto che da lui prese il nome, promosse la costruzione del nuovo Teatro comunale (teatro Verdi oggi Zajć) e una razionale sistemazione urbanistica della città.
Di questo periodo va ricordato anche il definitivo affermarsi come centro turistico internazionale di Abbazia. Nel 1885 Abbazia – che, pur distante solo 13 chilometri da Fiume, si trovava nella parte austriaca della Monarchia – era diventata la “Nizza austriaca”, una stazione climatica celebre e frequentata dal bel mondo di tutta Europa.
Fiume – La raffineria di olii minerali nel 1883
10. “LA PIU' BELLA PERLA DELLA CORONA DI SANTO STEFANO”
“Fiume, la più bella perla della corona di Santo Stefano”: era una denominazione questa ricorrente nella pubblicistica e nei discorsi dei politici ungheresi dell’epoca, volta a sottolineare l’importanza fondamentale della città per l’Ungheria del tempo.
Dal 1869 al 1913 la popolazione passò da 17.884 a 48.492 anime, aumentando quindi del 178%. In base al censimento del 1900 su 38.955 abitanti c’erano 17.305 Italiani, 9.092 Croati e Sloveni; 12.558 Ungheresi, Austriaci, Ebrei e altri.
Imponenti furono i lavori di ampliamento del porto iniziati il 18 febbraio 1872: nel giro di nove anni Fiume ebbe un porto che per dimensioni, attrezzatura, magazzini per le merci e collegamenti ferroviari poteva competere con i grandi porti europei. Dal 1870 al 1913 la superficie delle acque portuali aumentò di 10 volte: nel 1913 era di 62,2 ettari. Il numero delle navi in entrata e in uscita passò da 5.549 a 19.051 e il loro tonnellaggio da 261.488 a 5.791.272. Alla vigilia della Grande guerra Fiume era l’ottavo porto in Europa.
Lo straordinario decollo economico della città è documentato anche dallo sviluppo delle società di navigazione, in cui svolse un ruolo fondamentale l’imprenditore fiumano Luigi Ossoinack. Va ricordata almeno la Società di navigazione ungaro-inglese Adria che, fondata nel 1881, aveva la sua sede operativa a Fiume. Nel 1870 la navigazione marittima ungherese aveva un solo piroscafo appartenente al porto di Fiume, nel 1915 ben 135 unità.
Accanto alle industrie già esistenti sorsero nuove realtà industriali di rilievo europeo, tra cui l’impianto per la Pilatura del riso e fabbrica d’amido (1881), il più grande dell’Impero, il cantiere Danubius (dal 1911 Ganz-Danubius), la Raffineria del petrolio (1882) e il Silurificio.
Il Silurificio venne fondato nel 1875, col nome Torpedofabrik Whitehead & Comp., dall’inglese Robert Whitehead (1823-1905), che trasformò un’invenzione del fiumano Giovanni Biagio Luppis (1816-1880) – il “salva-coste”, un barchino a motore carico di esplosivo da dirigere contro le navi nemiche – in un micidiale dispositivo in grado di muoversi sotto la superficie del mare. L’ordigno perfezionato divenne il moderno siluro, determinando l’avvento delle navi dette torpediniere, che lanciavano le “torpedini”, e fornendo al sommergibile, nato a partire alla fine degli anni ottanta del secolo, l’arma decisiva. Nel 1881 la fabbrica di Whitehead vendette a diversi Stati, tra cui Inghilterra, Russia e Francia, oltre 1.000 torpedini.
Si è già accennato in precedenza, parlando di Giovanni de Ciotta, allo sviluppo urbanistico e architettonico della città. A Fiume operarono diversi architetti famosi: i viennesi Ferdinand Fellner e Hermann Helmer, il triestino Giacomo Zamattio, gli ungheresi Ferenc Pfaff, che costruì la Stazione ferroviaria, e Lipót (Leopold) Baumhorn, che realizzò la grande Sinagoga, poi distrutta dai nazisti, e soprattutto Alajos Hauszmann che portò a termine nel 1896 la costruzione in stile rinascimentale del nuovo grandioso palazzo del Governatore.
Nel 1914, venne costruito in stile Secessione e con una avveniristica struttura in cemento armato il cinema-teatro Fenice, progettato dagli architetti Theodor Träxler, viennese, ed Eugenio Celligoi, fiumano, oggi purtroppo in abbandono.
Il più importante artista del periodo è Giovanni Fumi: nato a Venezia nel 1849, fu attivo a Fiume dal 1883 al 1900, dove eseguì lavori di decorazione in diversi edifici pubblici e dipinse affreschi, pale d’altare e ritratti.
Gande fama e diffusione europea ebbero i moretti fiumani dell’orafo Agostino Gigante che, riprendendo una tradizione veneziana, realizzò dei piccoli gioielli, applicando su spille, bracciali e collane teste di moro con la testa e il turbante ricoperti, rispettivamente, di smalto nero e bianco.
Segno del grande progresso culturale della città fu l’apertura della Biblioteca civica nel 1893 e la nascita di nuove importanti associazioni, tra cui la Società degli Artieri (1869), che ebbe come presidente l’editore e storico Emidio Mohovich, la Società Filarmonico-drammatica (1872), che ebbe tra i soci le personalità più rilevanti della vita culturale, economica e politica cittadina, e il Circolo letterario (1893) che invitò i maggiori letterati e scrittori italiani del tempo a tenere conferenze a Fiume e pubblicò due periodici, La Vita Fiumana e La Vedetta. Tra le associazioni sportive vanno ricordate la Società nautica Eneo (1892) e il Club Alpino fiumano (1885) che, ebbe lo storico Egisto Rossi e il naturalista Guido Depoli tra i suoi animatori e il suo organo di stampa nella rivista Liburnia, che si pubblica ancora oggi in esilio.
Fu questo anche il periodo della fioritura della storiografia fiumana. Oltre a Emidio Mohovich, che ci ha lasciato un’opera preziosa sul periodo croato (Fiume negli anni 1867 e 1868) uscita nel 1869, va menzionato Vincenzo Tomsich (? – 1887) autore della prima storia di Fiume, pubblicata 1886 col titolo Notizie storiche sulla città di Fiume, un volume ricchissimo di documenti spesso integralmente riprodotti.
Memorie per la storia della liburnica città di Fiume è il titolo dell’opera in tre volumi del grande erudito Giovanni Kobler (1811-1893). L’opera, un capolavoro della storiografia positivista e un monumento all’autonomia di Fiume, venne pubblicata postuma nel 1896 dal Municipio a cura di Aladár (Alfredo) Fest, storico ungherese-fiumano, autore a sua volta di lavori fondamentali sulla storia della città
Parte dei saggi di Fest uscirono sul Bullettino della Deputazione fiumana di storia patria, il cui primo volume comparve nel 1910 con una presentazione di Egisto Rossi (1881-1908), geniale figura di intellettuale e storico, scomparso giovanissimo. Il Bullettino fu pubblicato fino al 1921 e ad esso, sempre nel 1910, si affiancarono i Monumenti di storia fiumana curati da Silvino Gigante.
Rilevante nel terzo periodo ungherese fu anche la presenza croata a Fiume. Nella vicina Sušak, a sua volta, in pieno sviluppo, Erazmo Barčić fondò nel 1878 il giornale Sloboda, per rivendicare i diritti dei Croati su Fiume. Dal 1900 operò inoltre nella città quarnerina il politico croato Frano Supilo (1870-1917).
Giovanni de Ciotta (1824 – 1903) podestà di Fiume per ventisei anni nel periodo dell’«idillio ungherese»
11. LA CRISI DELL' IDILLIO UNGHERESE: AUTONOMISTI E IRREDENTISTI
Negli anni novanta la politica ungherese, con il governo di Dezső Bánffy (1895–1899), subì un mutamento in senso nazionalistico e centralistico. In Ungheria, come in tutti i paesi europei, si andava rapidamente affermando l’ideologia del nazionalismo. Il nuovo orientamento magiarizzatore portò a mettere in questione la posizione speciale di Fiume definita dal Provvisorio e dallo Statuto del 1872. L’“idillio ungherese” era entrato in crisi.
Per difendere l’autonomia minacciata, nel 1896 nacque, ad opera di un gruppo di giovani guidato dal brillante avvocato Michele Maylender (1863-1911), l’Associazione Autonoma o Partito Autonomo fiumano, che già alle elezioni municipali dell’anno successivo ottenne un clamoroso successo. Maylender fu eletto podestà e nel suo discorso di insediamento dichiarò:
L’unica fonte e la radice dell’amore che Fiume nutre per l’Ungheria, l’origine del patriottismo speciale dei fiumani per la nazione ungarica, devesi ricercare esclusivamente ed unicamente nell’autonomia che Fiume gode e che il governo rispetta. Se si volesse togliere al Comune di Fiume il diritto di amministrare su base autonoma gli affari municipali, se si volesse togliere la lingua italiana, in tal caso l’albero del patriottismo nostro, leso profondamente nelle radici, dovrebbe assolutamente perire. Non si può immaginare nei fiumani il patriottismo ungarico disgiunto dall’autonomia.
La battaglia in difesa dell’autonomia municipale ebbe la sua voce nel settimanale La Difesa fondato da Maylender il 25 settembre 1898 e il braccio di ferro tra il Consiglio municipale e il Governo centrale si protrasse fino agli inizi del 1901, quando si raggiunse faticosamente un accordo.
Dopo essere stato eletto nel 1901 podestà per la sesta volta, Maylender per contrasti interni al Partito si dimise e si dedicò per un decennio alla stesura di una monumentale Storia delle Accademie italiane in cinque volumi (verrà pubblicata postuma nel 1926). Alle dimissioni di Maylender corrispose l’ascesa di Riccardo Zanella che divenne in breve il capo del Partito Autonomo e nel 1905 fu eletto anche deputato al Parlamento ungarico.
I nazionalismi contrapposti erano in piena crescita e minavano dall’interno la compagine dell’Impero. Sotto questo profilo la posizione degli autonomisti fiumani, costituiva un’anomalia: estranea al nazionalismo moderno, difendeva le “autonomie” dell’Impero plurinazionale, di cui non metteva in discussione la legittimità politica. Ma la pressione dei nazionalismi si faceva sentire ormai anche a Fiume.
Dal 1873 al 1897 i patrioti croati avevano tolto agli Italiani il controllo dell’amministrazione di tutte le città dalmate, tranne Zara. A Fiume Frano Supilo fondò nel 1900 il giornale Novi List e fu tra i promotori della Risoluzione di Fiume del 2-3 ottobre 1905 in cui si auspicava l’unione alla Croazia-Slavonia della Dalmazia, dell’Istria e di Fiume. L’attività editoriale croata nella città quarnerina si sviluppò soprattutto ad opera del sacerdote dalmata Bernardin Nikola Škrivanić che dette vita a case editrici e a diversi periodici.
Pochi mesi prima della Risoluzione di Supilo, nel luglio 1905 alcuni giovani patrioti italiani – Gino Sirola, Armando Hodnig (Odenigo), Luigi Cussar e altri –sul modello della mazziniana Giovine Italia avevano fondato il Circolo Giovine Fiume
L’irredentismo italiano diventò così a Fiume una realtà politica organizzata e dal 6 aprile 1908 ebbe anche il suo organo di stampa, il periodico bisettimanale La Giovine Fiume, nato dall’iniziativa di un gruppo di “anziani” che avevano aderito alla società, tra cui Icilio Baccich, Riccardo e Silvino Gigante, Egisto Rossi, Lionello Lenaz.
Gli irredentisti della Giovine Fiume, seppur minoritari, dettero vita a diverse iniziative che ne aumentarono la visibilità, come la partecipazione, insieme ai fiorentini e agli irredenti italiani dell’Austria, alle celebrazioni dantesche di Ravenna nel 1908, ma suscitarono anche il sospetto delle autorità. Nel gennaio 1910 il periodico irredentista fu soppresso e il 22 gennaio 1912 il governatore Wickenburg sciolse anche l’associazione.
Dal 1910 al 1914 Wickenburg promosse una dura politica repressiva e di magiarizzazione. Nel giugno 1913 venne introdotta nella città la polizia di Stato, in violazione dello Statuto del 1872, e il clima divenne incandescente. Alcuni aderenti alla Giovine Fiume collocarono sul davanzale di una finestra del palazzo del Governo una bomba che provocò solo la rottura di molti vetri. Qualche mese dopo nella notte tra il 1° e il 2 marzo 1914 una nuova bomba esplose nel giardino del palazzo del Governo anche questa volta senza gravi conseguenze. Ma venne ben presto alla luce che l’attentato era stato organizzato da un confidente della polizia per giustificare la repressione contro gli irredentisti e i fiumani “scomodi”! Lo scandalo fu enorme. Autonomisti e irredentisti si riavvicinarono: il 23 marzo Riccardo Gigante pubblicò il numero unico La Bomba, finanziato da Zanella, in cui accusò la polizia ungherese di aver ordito la trama d’accordo con il governatore Wickenburg e chiese di “essere incriminato per poter portare dinanzi ai giudici le prove della sua accusa”. Ma non ci fu alcun processo: dopo pochi mesi scoppiò la guerra e nel marzo 1915 Gigante riparò in Italia.
12. LA GRANDE GUERRA E LA DISSOLUZIONE DELL' AUSTRIA-UNGHERIA
Il 28 giugno 1914 l’ arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono della Duplice Monarchia, e sua moglie Sofia, in visita ufficiale a Sarajevo, vennero uccisi dal nazionalista serbo-bosniaco Gavrilo Princip. Fu la scintilla che innescò la Prima guerra mondiale. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia e il 4 agosto, per il meccanismo delle alleanze, erano già entrate in guerra Germania, Russia, Inghilterra e Francia. Tutta l’Europa era in fiamme.
L’atteggiamento dell’Italia, che il 3 agosto aveva dichiarato la propria neutralità, era seguito con ansia a Fiume. La situazione della città cominciò ad essere conosciuta in Italia solo poco prima dello scoppio della guerra attraverso La Voce di Prezzolini a Firenze, a cui collaboravano i fiumani Gemma Harasim ed Enrico Burich. Un importante articolo su La tragedia dell’italianità di Fiume fu pubblicato il 28 agosto 1913 da Burich, al quale si affiancò con diversi scritti Icilio Baccich.
Il 26 aprile 1915 venne stipulato il Patto di Londra: in cambio dell’intervento a fianco delle potenze dell’Intesa, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, Gorizia, l’Istria fino al Quarnero e una parte della Dalmazia, ma non Fiume. La notizia del patto, le cui clausole sarebbero dovute restare segrete, trapelò subito anche a Fiume e trapelò anche l’assenza della città dal novero delle cessioni promesse all’Italia.
Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria e il 24 le truppe italiane vacarono la frontiera del Piave.
Numerosi Fiumani erano già stati richiamati alle armi e inviati a combattere in Europa orientale contro i Russi in Galizia e in Bucovina. Molti altri, sospetti di nutrire sentimenti filoitaliani, furono internati nei campi ungheresi di Tápiósüly e Kiskunhalas; alle proteste del podestà Francesco Gilberto Corossacz le autorità risposero con lo scioglimento del Consiglio municipale. A Tápiósüly, oggi Sülysáp, vennero internati circa 800 civili di nazionalità italiana provenienti quasi tutti da Fiume. A Kiskunhalas vennero confinati i dissidenti politici fiumani, tra cui Francesco Drenig, Attilio Depoli, Guido Depoli e Luigi Cussar.
Tra l’estate 1914 e la primavera 1915 oltre cento giovani fiumani ripararono in Italia per arruolarsi volontari: 9 caddero in battaglia, 6 morirono per cause di guerra, 55 furono decorati, 24 furono condannati a morte in contumacia per alto tradimento dalle autorità austro-ungariche. Vanno ricordati i fratelli Baccich (Bacci) – Icilio (1879-1945), Iti (1892-1954) e Ipparco (1890-1916), morto in combattimento –, e i caduti Mario Angheben (1893-1915) e Annibale Noferi (1895?-1916), il quale, emigrato in Brasile nel 1912 allo scoppio della guerra era tornato in Italia per arruolarsi volontario. Riccardo Gigante, riparato in Italia nel 1914, rimase al fronte come volontario per tutta la durata del conflitto, contribuendo alla propaganda bellica. Giovanni (Nino) Host (poi Host-Venturi) (1892-1980), anche lui riparato in Italia fin dal 1911, fu ferito due volte e gli furono conferite tre medaglie d’argento.
Tra i volontari di provenienza autonomista troviamo il più stretto collaboratore di Zanella Mario Blasich (1878-1945): invece di chiedere l’esenzione a cui aveva diritto come medico e protofisico di Fiume, si arruolò per poi disertare sul fronte russo e, venuto in Italia, prestò la sua opera come capitano medico in reparti di prima linea. Giuseppe Sussain (1864-1921), pur avendo superato la cinquantina, si arruolò volontario nell’esercito italiano e chiese di essere inviato in prima linea. Umberto D’Ancona (1896-1964), biologo e zoologo di fama internazionale, riparato a Roma all’inizio della guerra, si arruolò giovanissimo nell’esercito italiano e fu ferito sul Carso. Il capo del Partito Autonomo Riccardo Zanella, inviato sul fronte russo, disertò e raggiunse l’Italia, dove dette vita al Comitato nazionale pro Fiume e il Quarnero con l’obiettivo dell’annessione di Fiume all’Italia.
Dal 15 al 23 giugno 1918 la battaglia del Piave segnò la disfatta degli Austriaci. La sconfitta dell’Impero era ormai nell’aria. Il 1° ottobre 1918 al Parlamento austriaco i rappresentanti di tutte le nazionalità affermarono il loro diritto all’indipendenza nazionale. Il 6 ottobre il “Consiglio plenario dei Croati, Serbi e Sloveni” a Zabagria dichiarò la fine di ogni rapporto con Budapest, per cui i Croati non intervennero nella seduta del parlamento ungarico del 18 ottobre. In questa seduta il deputato di Fiume Andrea Ossoinack protestò energicamente contro una eventuale annessione di Fiume alla Croazia, dichiarando:
[…] considero mio implicito dovere […] di elevare formale protesta in questa Camera, davanti a tutto il mondo, contro chiunque volesse concedere Fiume ai Croati. […] Perché Fiume non soltanto non fu mai croata, ma, al contrario, era italiana nel passato e italiana rimarrà nell’avvenire! […] Con riferimento a questa considerazione, mi permetto, in qualità di deputato di Fiume, […] di presentare la seguente dichiarazione: Siccome l’Austria-Ungheria, nella sua proposta di pace, pone come condizione fondamentale il diritto di autodecisione dei popoli, proclamato da Wilson, così Fiume rivendica quale “corpus separatum” questo medesimo diritto per sé, e in conformità pretende in piena misura di esercitare, senza nessuna limitazione, il diritto di autodecisione dei popoli.
Dopo pochi giorni, il 29 ottobre, le truppe italiane sfondarono il fronte avversario a Vittorio Veneto e il 3 novembre entrarono a Trento e Trieste. Il 4 novembre ebbero termine definitivamente le ostilità.
13. LA QUESTIONE DI FIUME ALLA CONFERENZA DELLA PACE
Il 29 ottobre 1918 fu per Fiume un giorno cruciale. Il parlamento croato proclamò lo “Stato nazionale sovrano di Sloveni, Croati e Serbi” con Fiume e la Dalmazia – che diventerà il 1° dicembre “Regno dei Serbi, Croati e Sloveni” (SHS) retto dalla dinastia dei Karadordevic, il governatore ungherese Jekelfalussy abbandonò Fiume e il Consiglio nazionale di Zagabria nominò Kostantin Rojčević commissario per il territorio di Fiume-Sušak.
Alle 10 del 29 ottobre si riunirono nella sala del Consiglio municipale di Fiume una sessantina di cittadini e il presidente dell’assemblea Antonio Grossich, medico famoso e letterato, invocò il diritto di Fiume all’autodecisione. L’assemblea confermò in carica il podestà Antonio Vio, si costituì in Comitato cittadino che assunse i pieni poteri e nominò al suo interno un Comitato direttivo. Fiume si poneva così come Stato indipendente, rifiutando di essere considerata oggetto passivo di trattative tra le potenze. In serata il Comitato cittadino, riunito nel salone della Filarmonica, assunse il nome di Consiglio Nazionale Italiano di Fiume presieduto da Antonio Grossich. La mattina seguente il Consiglio approvò un proclama-manifesto da affiggere in città: nacque così il Proclama di annessione di Fiume all’Italia del 30 ottobre 1918 . Eccone il testo:
Il Consiglio Nazionale Italiano di Fiume, radunatosi quest’oggi in seduta plenaria, dichiara che in forza di quel diritto, per cui tutti i popoli sono sorti a indipendenza nazionale e libertà, la città di Fiume, la quale finora era un corpo separato costituente un comune nazionale italiano, pretende anche per sè il diritto d’autodecisione delle genti. Basandosi su tale diritto il Consiglio nazionale proclama Fiume unita alla sua madrepatria l’Italia. Il Consiglio nazionale italiano considera come provvisorio lo stato di cose subentrato addì 29 ottobre 1918, mette il suo deciso sotto la protezione dell’America, madre di libertà e della democrazia universali, e ne attende la sanzione dal congresso della pace.
Contemporaneamente nel palazzo del Governo il rappresentante del Consiglio di Zagabria Kostantin Rojčević dichiarava di assumere il potere statale sulla città di Fiume! Si venne così a creare nella città quarnerina un autentico dualismo di poteri.
Una grande manifestazione italiana si svolse nel primo pomeriggio dello stesso 30 ottobre: il Proclama di annessione fu letto pubblicamente e venne acclamato da una folla di circa 20.000 persone. Qualche ora dopo un corteo con bandiere croate, muovendo da Sušak, attraversò la città.
Il Consiglio Nazionale sollecitava il Governo italiano ad intervenire e così la mattina del 4 novembre 1918, poche ore prima dell’entrata in vigore dell’armistizio, entrarono nel porto di Fiume quattro navi italiane, accolte da una folla festante. Ma l’ammiraglio Rainer, comandante della piccola flotta, mantenne un atteggiamento equidistante, condizionato dalla difficile situazione internazionale. Perciò il Consiglio Nazionale attraverso l’invio di suoi rappresentanti in Italia cercò in tutti i modi di modificare l’atteggiamento del Governo italiano dettato dal ministro degli Esteri Sonnino, fautore di una rigida applicazione del Patto di Londra.
Una svolta si verificò il 17 novembre: Fiume venne sottoposta ad una occupazione interalleata, le autorità croate abbandonarono la città e il Consiglio Nazionale Italiano divenne l’unico organo di potere. La situazione restò comunque indefinita, poiché Fiume non era stata occupata dall’Italia, ma dall’Intesa, il che faceva una differenza essenziale.
Il Comitato Direttivo del Consiglio Nazionale aveva assunto nel frattempo le funzioni di un vero e proprio governo provvisorio e Fiume si comportava da Stato indipendente, dotandosi anche di una propria Costituzione, il cui progetto venne predisposto il 3 dicembre 1918. Il 5 dicembre 1918 tornò a Fiume il capo del Partito autonomo Riccardo Zanella, che entrò però ben presto in contrasto col Consiglio Nazionale.
Alla Conferenza della Pace, apertasi a Parigi il 18 gennaio 1919, la questione di Fiume si rivelò un nodo inestricabile per il Governo italiano: avversario irriducibile dell’annessione di Fiume all’Italia era il presidente degli Stati Uniti Wilson e anche l’Inghilterra e la Francia erano favorevoli alle richieste territoriali del Regno SHS.
Nel frattempo nella città quarnerina la tensione tra la popolazione e i militari francesi, che si era manifestata già nei mesi precedenti, esplose il 2 luglio 1919 con gravi incidenti che causarono alcuni morti e feriti. La Conferenza di Parigi inviò a Fiume una Commissione d’inchiesta che concluse i suoi lavori dopo un mese in senso del tutto sfavorevole ai Fiumani, disponendo lo scioglimento del Consiglio Nazionale e il totale controllo interalleato della città. Per di più il nuovo governo italiano di Francesco Saverio Nitti, in carica dal 23 giugno, sembrava consenziente.
A Fiume aumentò così l’avversione contro le potenze alleate, nonché il timore di essere abbandonati ai Croati. Del resto alla fine di agosto i Granatieri di Sardegna, i primi soldati italiani entrati a Fiume il 17 novembre dell’anno precedente, avevano dovuto lasciare la città, accompagnati – alle cinque del mattino! – da una folla immensa.
Il Trattato di pace con l’Austria venne firmato a Parigi il 10 settembre 1919: prevedeva una semplice rinuncia di Vienna ai territori dell’Adriatico orientale e il nuovo confine orientale italiano continuava a restare indefinito.
14. L’IMPRESA DI FIUME
I risultati deludenti conseguiti dall’Italia alla Conferenza della pace contribuirono al diffondersi nell’opinione pubblica italiana dell’idea della “vittoria mutilata”, di cui si fece banditore Gabriele d’Annunzio, poeta di fama europea e notissimo anche come combattente pluridecorato e protagonista di una serie di azioni belliche eccezionali, come la “beffa di Buccari” del 10-11 febbraio 1918 e il “volo su Vienna” del 9 agosto 1918.
Già il 15 novembre 1918 d’Annunzio aveva assicurato il suo sostegno agli inviati del Consiglio Nazionale fiumano incontrati a Venezia. Nel maggio 1919 alcuni ufficiali dei granatieri, i cosiddetti Sette giurati di Ronchi, costretti poco tempo prima a lasciare Fiume, si misero ai suoi ordini: così nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1919 d’Annunzio con una colonna di “Legionari” si mosse da Ronchi e, senza essere contrastato dalle truppe dell’esercito regolare, a mezzogiorno del 12 settembre entrò a Fiume accolto da una folla strabocchevole. Le forze alleate lasciarono la città e al comando interalleato si sostituì il comando italiano. L’Impresa dannunziana fece così riguadagnare all’Italia quell’influenza nell’Adriatico che la Conferenza della pace le aveva negato.
Il 20 settembre 1919 d’Annunzio confermò in carica il Consiglio Nazionale Italiano, riservandosi un potere di controllo sugli atti più importanti. Due giorni prima aveva incontrato Zanella e tra i due si era manifestato subito un profondo dissenso sulle prospettive dell’Impresa e sui rapporti col governo italiano, dissenso che si trasformò ben presto in rottura aperta.
Il 26 ottobre 1919 si svolsero le elezioni per il rinnovo del Consiglio municipale (denominato ancora Consiglio Nazionale) in base alla nuova legge elettorale che, approvata pochi giorni prima dell’entrata dei Legionari, estendeva il voto alle donne.
La stragrande maggioranza dei voti andarono all’Unione nazionale che raggruppava i partiti favorevoli all’annessione.
Il governo Nitti – che paventava l’effetto destabilizzante dell’Impresa per la compagine statale italiana scossa da una profonda crisi economica e politica – tentò in vari modi la via del compromesso e alla fine di novembre propose a d’Annunzio un modus vivendi in cui, in cambio del ritiro dei Legionari, si impegnava a non separare Fiume dalla madrepatria, rinviando la soluzione definitiva della questione ad un momento più favorevole.
Il Consiglio Nazionale approvò la proposta, ma il poeta – riluttante ad abbandonare un’impresa il cui valore morale andava per lui al di là della questione specifica di Fiume – si oppose e promise di ricorrere ad un plebiscito. La consultazione si tenne il 18 dicembre, ma verso sera, quando si delineava la prevalenza dei voti favorevoli all’accettazione, d’Annunzio sospese lo spoglio e il giorno seguente si giustificò con un discorso in cui oppose alle “tristi urne” delle elezioni la vera “urna inesausta” dell’“anima eroica” dei Fiumani.
Gli avvenimenti del dicembre 1919 segnano l’inizio di una seconda fase dell’Impresa. Viene in primo piano la componente intransigente e rivoluzionaria del dannunzianesimo: il 20 gennaio 1920 il sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris diventa capo di gabinetto del Comandante, in alcuni ambienti legionari si diffondono idee repubblicane e di palingenesi sociale, aumenta il peso dei futuristi come Mario Carli.
L’8 settembre 1920 d’Annunzio proclamò solennemente la Reggenza Italiana del Carnaro, uno Stato di Fiume provvisorio in attesa dell’annessione all’Italia, e promulgò la Carta del Carnaro, la nuova costituzione della città elaborata dal De Ambris e riveduta dal poeta. Fiume divenne, con l’espressione del poeta, la “Città di Vita”, una sorta di società sperimentale, con idee e valori nuovi, spesso trasgressivi rispetto alla morale e alla politica correnti.
Tutto ciò ebbe l’effetto di disorientare i moderati, suscitare preoccupazioni all’interno del Consiglio Nazionale e suscitare defezioni anche tra i militari venuti a Fiume con d’Annunzio.
Nel frattempo si inaspriva il conflitto col governo italiano, fomentato anche da Zanella, che invocava un intervento militare dell’Italia, e dalla propaganda dei suoi seguaci a Fiume. Tensioni vecchie e nuove si manifestavano nella città, dove stava prendendo piede, come in tutto il Paese, il movimento fascista. Ad un primo Fascio di combattimento costituito a maggio per iniziativa di Mario Carli era subentrato in agosto un secondo Fascio controllato dal triestino Francesco Giunta.
In questo clima giunse a Fiume la notizia del Trattato di Rapallo, stipulato il 12 novembre 1920 tra Italia (il governo era guidato da Giovanni Giolitti subentrato a Nitti in giugno) e Regno dei Serbi Croati e Sloveni: l’Italia otteneva l’Istria, rinunciava alla Dalmazia ad eccezione di Zara e Fiume veniva costituita in Stato libero, amputata del Delta e del Porto Baross ceduti alla Croazia.
D’Annunzio, con l’appoggio del Consiglio Nazionale, respinse il Trattato e occupò le isole di Veglia e Arbe. Il generale Enrico Caviglia, comandante delle truppe italiane in Venezia Giulia, gli intimò di sgomberare le isole e lasciare la città. Ma d’Annunzio, pur abbandonato da altri elementi della sua cerchia come il generale Ceccherini, non cedette e il 21 dicembre la Reggenza proclamò lo stato di guerra: la lotta fratricida iniziò la sera della vigilia di Natale e durò cinque giorni causando la morte di 53 militari e 5 civili. Alla fine, onde evitare il bombardamento della città, il 28 dicembre il poeta rassegnò le dimissioni sue e del governo della Reggenza e rimise i poteri nelle mani del Consiglio Nazionale.
Il 1° gennaio 1921, al cimitero cittadino di Cosala, si svolsero le esequie dei caduti negli scontri del “Natale di sangue”. D’Annunzio dette l’estremo saluto ai suoi Legionari e ai soldati delle truppe regolari, tutti fratelli “allineati nel silenzio perpetuo, agguagliati nella requie eterna”: “[l]i abbiamo tutti ricoperti con lo stesso lauro e con la stessa bandiera. L’aroma del lauro vince l’odore tetro e la bandiera abbraccia la discordia”.
D’Annunzio a Fiume 1919
Lettera di d’Annunzio a Riccardo Gigante che annuncia la venuta a Fiume di Toscanini per il 20 novembre 1920
Legionari Fiumani durante il “Natale di sangue” del 1920
15. DALLO STATO LIBERO ALL' ANNESSIONE ALL' ITALIA
La fine del regime dannunziano non portò al ripristino della legalità e alla normalizzazione della vita cittadina. Non tutti i legionari lasciarono la città e il Governo italiano non impedì l’afflusso di ex-legionari, nazionalisti e fascisti prima delle elezioni dell’Assemblea Costituente del nuovo Stato istituito dal Trattato di Rapallo ed anzi si adoperò per contrastare gli autonomisti di Zanella tramite il ministro plenipotenziario Carlo Caccia Dominioni, arrivato in città il 5 febbraio 1921.
Ciò nonostante, le elezioni del 24 aprile 1921 segnarono una netta vittoria degli autonomisti: su 10.550 elettori votarono 9.554, 6.114 voti andarono al Partito Autonomo e 3.440 al Blocco annessionista. Quando cominciò a circolare la notizia della vittoria degli autonomisti, un gruppo di ex-legionari e di fascisti, guidati da Riccardo Gigante, dette alle fiamme le urne elettorali I verbali, però, erano già stati messi in salvo, per cui l’azione fu inutile e i risultati delle elezioni furono regolarmente proclamati.
La situazione dell’ordine pubblico continuava ad essere pessima: in una lettera a Giolitti del 30 aprile Zanella denunciava il terrore seminato da una “fazione armata di circa 600 individui […,] estranea ai partiti locali” agli ordini del Fascio triestino e favorita dalla “colposa passività” di buona parte dei Carabinieri e ne esigeva il disarmo. Ma ben poco fece il Governo, che non riusciva ad arginare nemmeno in Italia il moltiplicarsi delle violenze.
Così i tentativi di impedire al capo del Partito Autonomo di assumere il potere continuarono, al punto che la maggioranza autonomista dell’Assemblea Costituente dovette trasferirsi per breve tempo a Buccari sotto la protezione del governo jugoslavo!
Finalmente il 5 ottobre 1921 il generale Luigi Amantea, Alto Commissario del Governo italiano, dispose la convocazione dell’Assemblea, che elesse Presidente provvisorio dello Stato Zanella. Zanella cercò di riportare la situazione alla normalità, ma non fu in grado di risolvere la gravissima situazione dell’ordine pubblico. Il 3 febbraio 1922, in seguito al lancio di un petardo contro la sua automobile, la Costituente dovette sospendere le sedute a tempo indeterminato!
La caduta del governo zanelliano era ormai nell’aria. In seguito all’uccisione del giovane ex-legionario Alfredo Fontana avvenuta il 1° marzo e attribuita alle guardie zanelliane, il Fascio fiumano costitutì insieme ai nazionalisti e ai repubblicani un Comitato di Difesa Nazionale e all’alba del 3 marzo 1922 attaccò a fucilate il palazzo del Governo, preso a cannonate anche dal mare da un MAS guidato da Francesco Giunta. Zanella fu costretto alla resa e i suoi seguaci si rifugiarono a Portorè (Kraljevica) in Jugoslavia, dove si riunirono come Assemblea Costituente in esilio, tentando una estrema resistenza contro il fatto compiuto.
Gli autori del colpo di Stato chiesero che l’amministrazione della città fosse assunta dal Governo italiano, il quale, vincolato dal Trattato di Rapallo, propose invece una soluzione “fiumana”. Così il 5 aprile la Costituente rimasta a Fiume, ossia la minoranza annessionista, nominò capo provvisorio dello Stato di Fiume il vicepresidente Attilio Depoli, subito riconosciuto dal Governo italiano. Ma ciò non migliorò affatto la situazione. Zanella e gli autonomisti protestavano di continuo in tutte le sedi nazionali e internazionali, le violenze fasciste si intensificavano e l’inattività economica durava da cinque anni con effetti disastrosi. Depoli, amareggiato per le condizioni della città, era in procinto di dimettersi.
Nel settembre del 1923 il Governo italiano nominò governatore militare di Fiume, il generale Gaetano Giardino, a cui Depoli trasmise i poteri. Fiume indipendente esisteva ormai solo sulla carta. La stessa Jugoslavia aveva interesse a chiudere il contenzioso con l’Italia e così nello stesso mese iniziarono trattative tra i due paesi che portarono, il 27 gennaio 1924, alla firma del Trattato di Roma: Fiume, tranne il Delta e porto Baross che andavano alla Jugoslavia, veniva finalmente annessa all’Italia.
La notizia del Trattato giunse a Fiume la sera stessa del 27 gennaio accolta da grandi manifestazioni di giubilo. Il 16 marzo 1924 il governatore Giardino proclamò l’annessione dal palazzo del Governo davanti ad una folla immensa e alla presenza del re d’Italia Vittorio Emanuele III.
Riccardo Zanella
Costituente fiumana (maggioranza autonomista) a Portoré dopo il colpo di Stato del marzo 1922
16. IL “VENTENNIO”
Il 27 gennaio 1924 Fiume divenne il capoluogo della nuova provincia italiana del Carnaro. L’annessione all’Italia pose fine ad un lungo periodo di disordini e instabilità, ma non produsse alcun miglioramento sul piano economico. Privata del suo entroterra, sottoposta alla concorrenza della vicina Sušak, sottoposta ad un pesante regime tributario, negli anni che vanno dal 1924 al 1934 la città fece registrare un grave declino economico: con le parziali eccezioni della Raffineria di petrolio (diventata Romsa, Raffineria Olii Minerali Società Anonima) e della Manifattura Tabacchi, il numero degli occupati nelle attività industriali diminuì ed anche la popolazione scese da 55.000 a 45.000 abitanti. Soprattutto il porto fiumano sembrava languire senza speranza: “nel porto cresce ormai l’erba!” era diventato un detto comune.
Alcuni accordi economici stipulati con la Jugoslavia non ebbero conseguenze significative e la crisi del 1929 aggravò la situazione, provocando massicci licenziamenti in tutti i settori. Il tentativo di promuovere una politica di amicizia con il regno dei Karađorđević fallì anche a causa della politica adriatica italiana che puntava al controllo dell’Albania e, dopo il 1929, per l’appoggio fornito da Roma al politico croato Ante Pavelić, fondatore del movimento “ustascia” (dal verbo ustati, “insorgere”), condannato a morte dal governo di Belgrado.
Una svolta si verificò a partire dal 1934 con la stipula di importanti accordi economici tra Italia, Austria e Ungheria e soprattutto con l’aumento delle commesse statali per l’industria locale dovuto alle spese di guerra (campagna d’Etiopia, guerra di Spagna e, infine, Seconda guerra mondiale). A ciò si aggiunse nel 1937 un riavvicinamento tra Italia e Jugoslavia che portò alla costituzione di una Camera di commercio italo-jugoslava a Fiume.
Alla lotta di Fiume per l’annessione era stato dato un riconoscimento formale con la nomina nel 1934 di Icilio Bacci (Baccich) e Riccardo Gigante a senatori del Regno. Nella seconda metà degli anni Trenta i Fiumani furono però progressivamente sostituiti nei posti-chiave del Partito fascista e delle istituzioni da elementi venuti dall’Italia che, ignari della complessità etnica e culturale dell’area quarnerina e portatori di una mentalità autoritaria, aggravarono i guasti provocati dall’arroganza nazionalistica del regime.
Le leggi razziali del 1938 peggiorarono la situazione e dettero indirettamente un ulteriore impulso alla politica di fascistizzazione e di italianizzazione di Croati e Sloveni, che raggiungerà il suo acme dopo l’invasione della Jugoslavia del 1941 (v. capitolo successivo). E sarà proprio un fascista fiumano, Riccardo Gigante, in un articolo su La Vedetta d’Italia del 14 novembre 1944 a denunciare duramente questa “sciagurata politica”:
Alla nostra conoscenza di luoghi e delle popolazioni non si diede peso; del nostro avvertimento che la Dalmazia non era più quella dei tempi del Tommaseo e del Bajamonti, non si tenne conto; la nostra comprensione di vecchi irredentisti per i diritti delle minoranze fu derisa: il nostro rimarco sulla differenza di trattamento fatto agli Sloveni e ai Croati fu giudicato infondato. […] E si continuò a ferire rudemente le nuove popolazioni in ciò che avevano di più caro e a infierire contro di loro con le più stolide persecuzioni.
Anche durante il Ventennio, nonostante la politica nazionalistica del regime, Fiume non abdicò alla sua funzione di ponte verso il mondo danubiano-balcanico. Francesco Drenig pubblicò scrittori ungheresi e croati sulla rivista La Fiumanella, da lui fondata nel 1921, e diresse dal 1923 al 1925 la rivista Delta, un titolo che alludeva al ruolo di Fiume: “un delta su cui l’antica civiltà nostra viene in contatto con nuove civiltà in fermento”. Collaborò infine alla rivista Termini, edita a Fiume dal 1936 al 1943 con l’intento “di porgere la mano agli studiosi, letterati, scrittori, giornalisti delle terre serbe, croate e slovene”.
La storiografia fiumana conseguì in questo periodo risultati di rilievo. Nel 1923 venne fondata, in continuità con la Deputazione Fiumana di Storia Patria, la Società di Studi Fiumani che ebbe il suo organo nella rivista semestrale Fiume: la rivista ospitò importanti contributi scientifici di Attilio e Guido Depoli, Riccardo e Silvino Gigante, Alfredo Fest, Belario Lengyel, Giovanni Regalati, Mario Smoquina, Giuseppe Viezzoli e altri.
La città si arricchì di alcune notevoli opere architettoniche. La Chiesa dei Cappuccini, il cui piano inferiore era stato realizzato negli anni 1904-1908, venne ultimata nel 1929. Dal 1928 al 1934 fu costruito il Tempio Votivo di Cosala progettato dall’architetto Bruno Angheben e a cui collaborarono artisti fiumani come Romolo Venucci, Edmondo Dal Zotto e Ladislao de Gauss. Tra il 1939 e il 1942 fu costruito il Grattacielo ideato dall’architetto triestino Umberto Nordio.
Scarsi segni di vita dette l’opposizione antifascista, a cominciare dagli autonomisti, il cui radicamento restava profondo, come avrebbero dimostrato gli eventi successivi. In occasione di agitazioni verificatesi il 1° maggio 1927 il repubblicano Angelo Adam fu costretto a riparare a Sušak da cui raggiunse Parigi per unirsi alla Concentrazione antifascista. A tutto il 1940 il Tribunale speciale fascista giudicò per attività sovversiva a Fiume dodici persone, emettendo dieci sentenze di condanna; la pena più alta, 12 anni e 7 mesi, venne inflitta a Leo Valiani, che allora si chiamava ancora Weiczen, processato insieme a Giacomo Rebez e ad altri il 26 novembre 1931.
Cerimonia al tempio votivo da poco costruito
17. LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Il 10 giugno 1940 l’Italia si affiancò alla Germania nella guerra iniziata il 1° settembre dell’anno precedente con l’invasione tedesca della Polonia e dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna; il 28 ottobre attaccò la Grecia.
Il 26-27 marzo 1941 il governo della Jugoslavia del reggente Paolo Karađorđević, che aveva aderito al Patto tripartito tra Germania, Italia e Giappone, venne rovesciato da un colpo di Stato e sostituito da un governo filo-britannico. La Germania decise allora l’invasione della Jugoslavia: il 6 aprile 1941 le truppe tedesche penetrarono nel paese, seguite qualche giorno dopo da quelle italiane, che l’11 aprile entrarono a Lubiana e a Fiume varcarono il ponte sull’Eneo per occupare Sušak.
Il 13 aprile i tedeschi occuparono Belgrado e i ministri jugoslavi col re Pietro Karađorđević si rifugiarono a Londra, dando vita ad un governo in esilio. Il territorio della Jugoslavia venne in parte suddiviso e in parte controllato dalla Germania e dall’Italia. Venne costituito lo Stato Indipendente di Croazia (NDH) con a capo Ante Pavelić, arrivato a Zagabria dall’Italia.
La Slovenia meridionale e una parte della Dalmazia, eretta in Governatorato, furono annesse all’Italia, e venne ampliata la Provincia del Carnaro, suscitando in alcuni ambienti l’illusione di un recupero del ruolo di Fiume come scalo del bacino medio-danubiano. In realtà nella nuova provincia gli Italiani di Fiume si trovarono da un giorno all’altro in netta minoranza e le tradizionali rivendicazioni nazionalistiche croate e slovene si coniugarono ben presto con la lotta dei comunisti slavi.
Tra il 1941 e il 1942 in diverse località del Monte Nevoso già operavano gruppi partigiani. Il 24 aprile 1942 fu imposto il coprifuoco nella zona nord-occidentale della Provincia del Carnaro, dure rappresaglie vennero ordinate dal prefetto Testa e da maggio a settembre decine di persone ritenute complici dei partigiani vennero fucilate soprattutto nella zona di Castua. A Podhum, a pochi chilometri da Fiume, il 12 luglio vennero massacrati, come rappresaglia per il rapimento di un maestro italiano e della moglie, da 92 (fonti italiane) a 120 (fonti croate) abitanti del paese, poi incendiato.
Le famiglie sospettate di avere propri membri tra i partigiani vennero internate in campi di concentramento in varie località della Jugoslavia, Tra i campi italiani vanno ricordati quello di Arbe, dove vennero internati soprattutto civili sloveni e prigionieri di guerra in condizioni di detenzione durissime, e quello di Gonars nel Friuli. Quasi 100.000 fra Croati, Sloveni, Serbi e Montenegrini venero smistati in campi allestiti in diverse località italiane.
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo esautorò Mussolini e il re affidò il governo del Paese al generale Pietro Badoglio. L’8 settembre Badoglio lesse alla radio il proclama dell’armistizio firmato qualche giorno prima. Le truppe italiane furono lasciate allo sbando, senza ordini precisi e in balia dell’esercito tedesco. Il 12 settembre Mussolini, che era tenuto prigioniero sul Gran Sasso, fu liberato da un commando tedesco e il 23 formò a Salò, sotto protezione germanica, il nuovo governo della Repubblica Sociale Italiana.
Nello sfacelo militare seguito all’armistizio molti ufficiali scelsero di cedere le armi in cambio della salvezza, ma non pochi decisero di continuare a combattere: nei Balcani da 8.000 a 12.000 soldati italiani si aggregarono al Movimento Popolare di Liberazione (MPL) jugoslavo, mentre una minoranza accettò di aderire alla nuova Repubblica di Mussolini.
Dopo l’8 settembre il MPL jugoslavo prese per breve tempo il potere in Istria: centinaia di persone vennero arrestate e gettate nelle foibe o nelle cave di bauxite sparse nella campagna istriana. II numero complessivo delle vittime va probabilmente dalle 650 alle 750 persone. A finire nelle foibe furono tutti coloro che potevano essere identificati con le istituzioni italiane, oppositori anche solo potenziali: vennero così uccisi, tra i tanti, il parroco di Villa di Rovigno, don Angelo Tarticchio, le tre giovanissime sorelle Radecchi, una delle quali in avanzato stato di gravidanza, e la studentessa Norma Cossetto di Santa Domenica di Visinada, seviziata e torturata.
La questione delle foibe venne sollevata anche da antifascisti e comunisti italiani, come il rovignese Pino Budicin che nel dicembre 1943 denunciò duramente i metodi usati per liquidare i supposti “nemici del popolo”. In generale la partecipazione degli Italiani alla Resistenza nei territori del confine orientale andò incontro a gravi difficoltà.
Il movimento resistenziale jugoslavo infatti, a differenza di quello italiano, fu ben presto egemonizzato dai comunisti di Josip Broz detto Tito, fautori di una trasformazione rivoluzionaria dello Stato e della società jugoslavi e assertori di una posizione assolutamente intransigente sulla questione nazionale e dei confini. Il 16 settembre venne proclamata in modo unilaterale l’annessione alla futura Jugoslavia di Trieste, Gorizia e Monfalcone e il 20 settembre quella di Fiume, dell’Istria e di Zara. La posizione degli antifascisti italiani – che sostenevano l’opportunità di decidere l’appartenenza politica dei territori contestati dopo la vittoria comune sul nazi-fascismo – non venne nemmeno presa in considerazione. Fu anzi deciso che i comunisti italiani dovevano iscriversi ai Partiti comunisti croato e sloveno e nel luglio 1944 venne costituita l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (UIIF), cinghia di trasmissione dei Partiti comunisti croato e sloveno, che sostenne l’annessione dei territori in questione alla futura Jugoslavia. A questa posizione dette infine nell’ottobre 1944 il suo appoggio anche il Partito comunista italiano (PCI).
All’indomani dell’armistizio, il 14 settembre Fiume fu occupata dalle truppe tedesche del colonnello Kaspar Völker, che ripresero ben presto il controllo della fascia costiera. Nell’ottobre 1943 venne istituita la Zona d’operazioni Litorale Adriatico (OZAK), che comprendeva Udine, Gorizia, Lubiana, Trieste, Pola e Fiume, nonché Sušak, Buccari, Čabar, Castua e Veglia.
Il 21 settembre Völker aveva nominato Commissario straordinario per la Provincia del Carnaro Riccardo Gigante, che però si dimise dopo pochi giorni, lasciando il posto ad Alessandro Spalatin e astenendosi poi dalla politica attiva. Gino Sirola, nominato podestà di Fiume dalle autorità tedesche il 9 febbraio 1944, cercò di guadagnare consensi al rinato Partito fascista, il cui ruolo restò comunque del tutto marginale.
Alle 11.30 del 7 gennaio 1944 ci fu il primo bombardamento aereo anglo-americano su Fiume. Ne seguirono altri 27 fino al 19 aprile 1945; le vittime furono più di un centinaio e gli impianti portuali e industriali furono distrutti all’80%.
Il 30 gennaio 1944 i nazisti incendiarono la grande Sinagoga di Fiume e dettero inizio alla deportazione in massa degli ebrei fiumani: furono deportate 243 persone, che, dopo essere passate per la Risiera di San Sabba a Trieste, finirono quasi tutte ad Auschwitz e di esse solo 19 sopravvissero. Di un piano di salvataggio di ebrei fiumani e provenienti dalla Croazia organizzato dal commissario Giovanni Palatucci, reggente della Questura fiumana nel 1944, si è molto scritto e discusso. Senza dubbio Palatucci era coinvolto in un’attività antinazista: il 13 settembre 1944 venne infatti arrestato e deportato a Dachau dove morì il 10 febbraio 1945.
Tra il 1944 e il 1945 nei dintorni di Fiume si moltiplicarono le azioni partigiane e le rappresaglie tedesche. La pratica dell’infoibamento è documentata anche per la provincia del Carnaro: sono state individuate quattro foibe sul monte Maggiore e due nelle località di Grobnico e Kostrena, dove venne gettato anche il parroco di Sušak don Martin Bubanj. Feroci furono le rappresaglie tedesche: il 30 aprile 1944 nel paesino di Lipa, nei pressi di Fiume, vennero fucilati oltre 220 civili, tra cui donne, vecchi e bambini, su una popolazione complessiva di 490 abitanti.
Nel marzo 1945, con i Sovietici e gli Americani che puntavano da est e da ovest su Berlino, per la Germania l’ora della disfatta era ormai vicina. Anche a Fiume i segni di sgretolamento erano sempre più diffusi. Già nel luglio 1944 esponenti del fascismo fiumano – tra cui Giuseppe Gerini, condirettore del quotidiano La Vedetta d’Italia, Giuseppe Marras, presidente dell’Istituto di cultura fascista, e lo scrittore Osvaldo Ramous – avevano cominciato a collaborare col MPL. Il 18 aprile 1945 il fiumano Raoul Sperber, sottotenente degli alpini, venne fucilato dai Tedeschi per aver progettato di passare insieme a un gruppo dei suoi alpini a fianco dei partigiani italiani che combattevano nel MPL.
Alla fine di aprile i partigiani sferrarono l’attacco finale e alle dieci del mattino del 3 maggio 1945 incominciarono a scendere dal sobborgo di Drenova e presero possesso della città. La sollevazione cittadina pianificata dal Comitato popolare di liberazione non si verificò.
18. IL “POTERE POPOLARE” A FIUME: LA REPRESSIONE
Il nuovo potere si organizzò attorno al Comitato Popolare Cittadino (CPC) con a capo Pietro Klausberger. La situazione era saldamente in mano ai comunisti jugoslavi e i comunisti fiumani italiani agivano all’interno del Partito comunista croato e delle sue “cinghie di trasmissione”, come l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (UIIF) e l’Unione Antifascista Italo-Slava (UAIS), mentre la polizia segreta, l’OZNA, era diretta da militanti croati come Emil Karadžija detto Domaci e Oskar Piskulić.
In Jugoslavia, come negli altri Paesi dell’Europa orientale liberati dall’Unione Sovietica, si stava rapidamente instaurando il sistema di democrazia popolare fondato sul Partito unico, sul controllo ferreo della stampa e soprattutto sull’onnipotenza della polizia politica.
A Fiume soltanto gli autonomisti, non compromessi col fascismo e ancora influenti, avrebbero potuto creare qualche problema ai nuovi padroni. Nel corso del 1944 i comunisti jugoslavi avevano infatti cercato di convincerli ad appoggiare l’annessione della città alla Jugoslavia. Di fronte al loro netto rifiuto avevano scatenato una violenta campagna con manifestini (in uno si poteva leggere: “nessun bunker germanico vi salverà dal nostro mitra”) e articoli sui giornali partigiani.
Le minacce divennero realtà subito dopo il 3 maggio: già nella mattina del giorno successivo cominciarono a circolare notizie di irruzioni dell’OZNA in diverse case e di liquidazioni sommarie. Il 3 maggio furono uccisi gli esponenti autonomisti Nevio Skull, Giuseppe Sincich e il braccio destro di Zanella Mario Blasich che, invalido, venne strangolato nel suo letto. Centinaia di persone vennero arrestate e scomparvero nel nulla: l’ex podestà Carlo Colussi con la moglie Nerina Copetti, l’insegnante Margherita Dumicich Sennis e la figlia Gigliola, l’antifascista repubblicano Angelo Adam, prelevato nel dicembre 1945 con la moglie e la figlia, Gino Sirola, riportato a Fiume da Trieste e poi scomparso, e tanti altri. Furono liquidati o scomparvero anche Fiumani croati, come Radoslav Baucer, direttore amministrativo dell’Ospedale civile. Riccardo Gigante fu prelevato nella sua casa di Fiume e ucciso a Castua il 4 maggio insieme ad una decina di italiani, tra cui il maresciallo di finanza Vito Butti e l’ex legionario dannunziano Nicola Marzucco.
Ci furono retate di fascisti o presunti tali, di questurini, carabinieri e finanzieri: almeno 89 membri della Questura, 50 della Finanza, 11 carabinieri e 93 militi della RSI furono deportati per destinazione ignota e finirono probabilmente nelle foibe di Grobnico e di Kostrena.
La repressione rientrava in un piano complessivo di epurazione preventiva promosso dalle autorità comuniste nei territori della Venezia Giulia e in tutta la Jugoslavia. Una quantizzazione precisa del numero delle vittime in tutta la Venezia Giulia è, per diversi motivi, molto difficile. La maggior parte degli storici concordano attualmente su un numero minimo di 4.000-5.000 vittime (di cui circa 600 ascrivibili alle “foibe istriane” del 1943).
Le liquidazioni sommarie ebbero termine nel tardo autunno del 1945 anche a causa di pressioni internazionali (il 23 giugno Churchill aveva protestato per le crudeltà commesse contro gli italiani specialmente a Trieste e a Fiume) e il 30 ottobre entrarono in funzione i Tribunali popolari accanto ai Tribunali militari. Iniziò così la seconda fase della repressione, condotta con mezzi “legali”: furono emesse numerose sentenze di condanna ai lavori forzati e di confisca di beni, e alcune condanne a morte. I pochi processi pubblici ebbero un chiaro significato politico di “ammonimento” e furono imbastiti processi postumi contro persone già liquidate come Angelo Adam.
Le qualificazione di nemico del popolo venne usata maniera talmente ampia da farvi rientrare qualsiasi avversario, anche potenziale, e un ruolo fondamentale fu svolto dalla delazione, apertamente incoraggiata dalle autorità anche in forma anonima.
L’epurazione investì anche i luoghi di lavoro – i Cantieri Navali, il Silurifico e la ROMSA, le scuole –, dove nel corso di assemblee di “critica e autocritica”, secondo un copione ben sperimentato nell’Unione Sovietica staliniana, vennero messi alla gogna diversi lavoratori accusati di “propaganda reazionaria”, “sabotaggio” e così via.
Furono soppresse le festività e l’insegnamento religiosi. La persecuzione religiosa investì tutta la Jugoslavia e il cattolicesimo croato ne fu particolarmente colpito: l’arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac, avverso al regime comunista di Tito, venne accusato di collaborazionismo e condannato nel settembre 1946 a 16 anni di lavori forzati in un processo accuratamente costruito e la cui sentenza è stata dichiarata nulla nel 2016 dal Tribunale distrettuale di Zagabria.
A Fiume la persecuzione ebbe il suo episodio più clamoroso nella distruzione della Chiesa del Redentore, che venne minata e fatta saltare il 4 novembre 1949. La statua della Madonna sulla scogliera di Abbazia venne abbattuta. Fuorono vietate le associazioni cattoliche e la stampa diocesana. Il vescovo di Fiume Ugo Camozzo, bollato come “nemico del popolo”, dovette abbandonare la città.
Il bilancio complessivo della repressione a Fiume è così tracciato da Ballarini nel “Profilo storico” premesso al fondamentale lavoro Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947), pubblicato dal Ministero italiano per i beni e le attività culturali nel 2002:
a Fiume, per mano di militari e della polizia segreta […], sotto le direttive del Partito comunista croato […], con la complicità diretta o indiretta del Comitato popolare cittadino […], non meno di 500 persone di nazionalità italiana persero la vita tra il 3 maggio e il 31 dicembre del 1947. A questi dovremmo aggiungere un numero imprecisato dì «scomparsi» (non meno di un centinaio) che il mancato controllo nominativo nell’anagrafe storica comunale ci costringe a relegare nell’anonimato insieme al consistente numero, nei paesi della provincia del Carnaro e dei distretti annessi dopo il 1941, di vittime di nazionalità croata (che spesso ebbero, almeno tra il 1940 e il 1943, anche la cittadinanza italiana) determinate a guerra finita dal regime comunista jugoslavo.
Colonna di deportati a Trieste nel 1945
Occupazione jugoslava di Fiume 1945
Icilio Bacci
19. IL TRATTATO DI PACE DEL 10 FEBBRAIO 1947 E L' ESODO
Il 29 luglio 1946 si aprì a Parigi la Conferenza della pace; la delegazione italiana fu ammessa senza diritto di voto e di proposte.
Riccardo Zanella, tornato alla fine del maggio 1945 a Roma dalla Francia, dove aveva partecipato alla Resistenza, cercò di riproporre per Fiume la soluzione dello Stato Libero, richiamandosi al Trattato di Rapallo del 1920. In contatto col presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi, costituì a Roma l’Ufficio Fiume. La sua battaglia ebbe qualche risonanza internazionale, ma non portò ad alcun risultato.
Con il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 l’Italia perse l’Istria, Fiume e Zara; per quel che riguarda Trieste venne prevista l’istituzione di una sorta di Stato indipendente, il Territorio Libero di Trieste (TLT), suddiviso in una zona A (con Trieste) e in una zona B (un lembo dell’Istria occidentale con Capodistria e Buie) sotto amministrazione militare, rispettivamente, alleata e jugoslava. Il TLT non entrò mai in funzione: il 5 ottobre 1954 la zona A ritornerà sotto la sovranità italiana in seguito ad un accordo internazionale e il 10 novembre 1975 la zona B sarà ceduta definitivamente alla Jugoslavia col Trattato di Osimo.
All’Italia fu concesso soltanto di subordinare la firma del Trattato alla ratifica dell’Assemblea costituente. Pochissime voci si alzarono per protestare contro le cessioni territoriali al confine orientale. Lo fece con chiarezza e passione solo il fiumano antifascista Leo Valiani, che nel suo discorso disse:
I territori italiani che devono essere ceduti alla Jugoslavia, la Jugoslavia li ha già annessi […]; gli Italiani di Fiume e di Pisino sono già considerati e trattati come cittadini jugoslavi, a meno che non scappino, a meno che non se ne vadano clandestinamente, abbandonando i loro averi. Io credo di non aver bisogno di dimostrare, come giuliano, cosa rappresenti per noi, per i miei, questo Trattato, in particolare nelle sue clausole che ci feriscono nelle carni vive. […] Purtroppo il Trattato è costantemente peggiorato da quando se ne discusse la prima volta a Londra nel 1945. Dal principio etnico si passa all’annessione di tutta l’Istria alla Jugoslavia.
Già all’indomani dell’arrivo dell’esercito jugoslavo iniziò nei territori occupati l’esodo degli Italiani, che assunse dimensioni sempre più imponenti negli anni successivi. Negli anni cinquanta Tito ebbe a dichiarare: “ci siamo liberati di 300.000 italiani”! Questa cifra può essere nel complesso accettata, anche se risulta che diverse persone, per vari motivi, non si registrarono come profughi, sfuggendo ad ogni accertamento. In ogni caso il carattere massiccio dell’esodo viene alla luce guardando alle cifre in percentuale: ad abbandonare i territori ceduti alla Jugoslavia fu circa il 90% della popolazione italiana. L’esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati costituisce una cesura storica che non ha precedenti. Nel primo dopoguerra e nel Ventennio, per esempio, nonostante la repressione fascista, non si era verificato alcun esodo massiccio di Slavi dall’Italia verso la Jugoslavia. L’esodo degli Italiani istriani, fiumani e zaratini del secondo dopoguerra travolse invece un intero gruppo nazionale, snaturando in modo irreversibile la fisionomia etnica e culturale dei territori da loro abitati da secoli.
L’esodo non fu provocato da un decreto di espulsione, fu un fenomeno spontaneo e nel contempo non volontario, un’espulsione di fatto. Esso va visto come una risposta all’organico disegno repressivo del nuovo potere totalitario, che individuava soprattutto negli Italiani, tiepidi od ostili nei confronti del nuovo regime, i “nemici del popolo” da colpire e rendere politicamente e culturalmente irrilevanti.
A Fiume l’esodo cominciò nel 1945 e si intensificò dopo la firma del Trattato di pace, prolungandosi fino agli inizi degli anni cinquanta. Su una popolazione che nel 1942 ammontava a 45.830 unità al censimento jugoslavo del 1961 mancavano all’appello 42.580 persone. L’esodo coinvolse circa il 90% dei residenti. Il Trattato di pace prevedeva che gli Italiani dei territori annessi alla Jugoslavia potessero optare per la conservazione della cittadinanza italiana e trasferirsi obbligatoriamente in Italia. Dopo il 1947 le autorità jugoslave, preoccupate per le dimensioni impreviste assunte dall’esodo, cominciarono a respingere le domande di opzione; a Fiume ne furono respinte 2.000.
Nonostante la durissima repressione, nel biennio 1945-1947 si verificarono a Fiume alcuni episodi di resistenza aperta al nuovo regime: azioni individuali – come quella del giovane operaio Giuseppe Librio abbattuto dalla raffica di mitra di un soldato jugoslavo il 16 ottobre 1945 per aver ammainato, insieme a due compagni, la bandiera jugoslava da uno dei pennoni in piazza Dante – e azioni di gruppi organizzati, tra cui vanno ricordati i “giovani autonomisti” o “gruppo Visinko”, dal nome del loro principale esponente, il “gruppo cattolico” o “gruppo di padre Nestore” e il “gruppo Maltauro”. Furono tutti scoperti e condannati a durissime pene detentive.
A partire dal 1945 venne promossa una sistematica politica di distruzione della secolare storia italiana di Fiume sotto il pretesto della lotta ai residui fascisti. L’odonomastica venne progressivaente azzerata, croatizzata e “comunistizzata”, vennero aboliti i secolari simboli cittadini: il vessillo, sostituito da una strana bandiera bianco-celeste, e lo stemma leopoldino, l’aquila bicipite, rimossa dalla Torre Civica perché considerata simbolo “fascista”. Emblematica di questa furia orwelliana, oltre alla distruzione già menzionata della Chiesa del Redentore, la sparizione organizzata nel 1945 del busto in marmo di Antonio Grossich, patriota e scienziato, eretto nel 1930 nel Parco Regina Margherita (oggi Parco Nikola Host). Quel busto si trova attualmente nel Museo Civico di Fiume e potrà forse in futuro riottenere il suo posto, a conferma che la storia spesso riemerge dopo il nascondimento, come un fiume carsico.
Delegazione giuliana a Parigi settembre 1946
20. CONCLUSIONE. IL RITORNO CULTURALE DEGLI ESULI A FIUME-RIJEKA
La storia di Fiume può considerarsi conclusa negli anni immediatamente successivi del grande esodo, i cui vuoti furono colmati da una massiccia immigrazione. Fiume diventò definitivamente Rijeka. Emblematica fu l’unione della città alla vicina Sušak con la scomparsa del ponte sull’Eneo, che nel corso dei secoli aveva, per un verso, separato Fiume dalla Croazia e, per un altro, collegato due popoli da sempre coinvolti in un processo ininterrotto di scambi e “contaminazioni” reciproche.
Fiume, che nel 1942 contava 45.830 anime, di cui i Croati ed altri Slavi costituivano circa il 20%, conta oggi 175.000 abitanti, di cui 2.500 soltanto si sono dichiarati italiani al censimento croato del 2011, meno dell’1,5% della popolazione complessiva.
Nei primi anni del secondo dopoguerra comincia quindi un’altra storia o, meglio, cominciano diverse altre storie: la storia dell’accoglienza degli esuli giuliano-dalmati in Italia e nel mondo, la storia delle associazioni degli esuli in Italia e nel mondo e la storia degli Italiani nella ex Jugoslavia e oggi nelle repubbliche di Croazia e Slovenia. E da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, la storia della città croata di Rijeka-Fiume dal 1945 ai giorni nostri, in cui la presenza italiana è diventata minoritaria.
Nei confronti degli esuli il Governo italiano fece in modo di evitare una loro concentrazione – che avrebbe potuto creare problemi politici – non solo a Trieste, ma anche in altre località, disperdendoli in 109 campi-profughi sparsi in tutta la penisola. Ci furono tre parziali eccezioni: il Villaggio Giuliano-dalmata di Roma con circa 2.000 esuli, gli insediamenti giuliani di Fertilia in Sardegna (circa 600 esuli) e il Villaggio Trieste a Latina (circa 1.000 esuli). Nello stesso tempo venne promossa una politica assistenziale affidata dal 1949 all’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati, che ebbe come primo presidente Oscar Sinigaglia e fu poi diretta fino al suo scioglimento nel 1978 da Aldo Clemente.
Associarsi per non dissolvere la propria identità e per non dimenticare: è questa l’origine dell’associazionismo degli esuli giuliano-dalmati in Italia e nel mondo. Diversi Comitati giuliani sorsero fin dal 1943 e negli anni successivi in varie città italiane, alcuni dei quali dettero vita il 22 giugno 1948 all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Zara, che, divenuta nell’ottobre 1949 Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), ebbe anche un efficiente Ufficio Assistenza diretto dal francescano Flaminio Rocchi.
Per quel che riguarda Fiume, va ricordata la ricostituzione a Roma il 27 novembre 1960 della Società di Studi Fiumani ad opera di alcuni intellettuali fiumani esuli (Attilio Depoli, Enrico Burich, Giorgio Radetti, Gian Proda e Vincenzo Brazzoduro) e la costituzione nel 1964 nel cuore dell’ex Villaggio Giuliano Dalmata all’EUR dell’Archivio Museo Storico di Fiume (AMSF), riconosciuto di “eccezionale interesse storico” nel 1972 dal Ministero della Pubblica Istruzione e istituzione culturale dell’esodo dalla legge del 30 marzo 2004 istitutiva del “Giorno del Ricordo”. Negli anni Sessanta del secolo trascorso sorsero le associazioni dei Liberi Comuni in esilio delle città perdute. Il Libero Comune di Fiume in esilio – oggi AFIM – Associazione Fiumani Italiani nel Mondo – si costituì nel 1966 ed ebbe come primo sindaco Ruggero Gherbaz; il suo organo di stampa è tuttora il periodico La Voce di Fiume.
Il regime comunista jugoslavo assicurò alla minoranza italiana una serie di diritti e di strumenti, il cui esercizio fu però sottoposto al rigido controllo del Partito. La minoranza italiana era rappresentata dall’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (UIIF), colpita da epurazioni ogni qualvolta i suoi dirigenti cercarono di operare autonomamente, disponeva (e dispone) della casa editrice EDIT, che pubblica a tutt’oggi due periodici in lingua italiana, il mensile Panorama e il quotidiano La Voce del popolo, a cui va aggiunta la rivista culturale La battana nata a Fiume nel 1964, nonché i programmi italiani di RTV Capodistria. Un ruolo importante fu svolto negli anni del regime dal “Dramma Italiano di Fiume”, una compagnia di prosa di lingua italiana. Va menzionato infine il Centro di ricerche storiche di Rovigno, costituito il 12 febbraio 1969, che nel corso degli anni ha promosso numerosi importanti studi e ricerche.
Nel 1989 il crollo del muro di Berlino e la conseguente rapida implosione dei regimi comunisti nei Paesi dell’est segnò una svolta radicale. In Jugoslavia vi fu un radicale cambiamento nell’organizzazione della minoranza, che dovette fare subito i conti con la proclamazione dell’indipendenza della Slovenia, nel dicembre 1990, e della Croazia, nel giugno 1991, e con la guerra che seguì dal 1991 al 1995. Il 16 luglio 1991 la vecchia UIIF fu sostituita dall’Unione Italiana, il nuovo organismo democratico della minoranza e la stella rossa scomparve dal vessillo e dai documenti ufficiali. Il cambiamento si estese a tutte le altre istituzioni della minoranza, a cominciare dalla stampa in lingua italiana.
Con la fine del regime comunista jugoslavo cominciò a svilupparsi un rapporto, prima pressoché inesistente, tra gli esuli e la minoranza dei rimasti ed anche tra gli esuli italiani e i Croati e gli Sloveni, rappresentati ormai da governi democratici che ambivano ad entrare nell’Unione Europea (il che è avvenuto nel 2004 per la Slovenia e nel 2013 per la Croazia).
I primi a promuovere un dialogo ufficiale con gli italiani rimasti e con le autorità della maggioranza croata furono le associazioni degli esuli fiumani, seguiti dopo qualche anno dalla maggior parte delle altre. Sin dal 1989, quando ancora esisteva lo Stato jugoslavo, la Società di Studi Fiumani, in accordo col Libero Comune di Fiume in esilio, inviò una delegazione nella città di origine. Nelle condizioni storiche attuali l’identità culturale di carattere italiano di Fiume, così come delle altre terre perdute, può e deve essere difesa e valorizzata congiuntamente dagli esuli e dai rimasti insieme alle istituzioni croate a partire dalla Muncipalità di Fiume-Rijeka.
Dal 1989 ad oggi sono state realizzate a Fiume diverse iniziative e sono stati ottenuti significativi risultati. Va ricordata, innanzi tutto, la ricerca sulle vittime di nazionalità italiana nell’ex provincia italiana del Carnaro nel periodo 1939-1947: promossa dalla Società di Studi Fiumani e dall’Istituto Croato per la Storia, si è conclusa nel 2002 con la pubblicazione del volume bilingue (italiano e croato), curato da Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski, Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni 1939-1947 edito dal Ministero italiano per i beni e le attività culturali. Un importante riconoscimento è poi venuto dalla Municipalità fiumana che il 10 maggio 2016 ha conferito la “Targa d’Oro-Città di Fiume” all’allora presidente della Società di Studi Fiumani Amleto Ballarini “per il pluriennale impegno nella promozione del dialogo e dell’immagine della città di Fiume”.
Negli anni recenti la municipalità di Fiume-Rijeka ha deciso di ricordare nella odonomastica il capo del Partito Autonomo Fiumano Riccardo Zanella, ha deliberato di ricollocare sulla sommità della Torre Civica l’aquila fiumana bicipite ed ha fatto collocare nella Città vecchia una serie di tabelle con l’elenco delle denominazioni storiche delle vie e delle piazze a parziale recupero della storia cittadina dimenticata.
Fiume continua a vivere nell’attuale Rijeka e dopo la devastazione totalitaria le tracce del suo antico volto cominciano a diventare riconoscibili.
Campo profughi di Laterina (Arezzo)
Vita nei campi profughi
PER APPROFONDIRE
G. Stelli,
Storia di Fiume dalle origini ai nostri giorni,
Pordenone 2017, Biblioteca dell’Immagine (con ampia bibliografia)